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Il coronavirus ci sta togliendo la morte come rito collettivo

emergenza coronavirus

Abbiamo provato a guardare questa situazione di emergenza da un punto di vista antropologico, inteso come un periodo storico in cui è un’intera collettività a soffrire e il rapporto con la morte è ormai quotidiano e molto vicino e molto spaventoso. Il coronavirus COVID-19 e la necessità di stare chiusi in casa e di isolare i pazienti ci sta togliendo il rito collettivo della morte.

Ecco un’estratto dell’intervista di Florencia Di Stefano-Abichain a Marta Villa, antropologa dell’Università di Trento e dell’Università della Svizzera Italiana.

Qual è la lettura dal punto di vista antropologico di un periodo come questo?

L’antropologia si occupa di un sapere collettivo e noi indaghiamo su quello che gli uomini fanno insieme, lasciando l’introspezione personale ad altre discipline, come la psicologia che può darci molte interpretazioni di come si possa elaborare il lutto personale. L’elaborazione collettiva del lutto, però, aiuta anche l’elaborazione individuale del lutto. Siamo esseri umani proprio perché a un certo punto della nostra storia molto lontana abbiamo iniziato a concepire qualcosa che va al di là della vita che a un certo punto finisce. Questo ci differenzia da altri tipi di esseri viventi che sono sul pianeta e che non hanno questo tipo di sensibilità.
Allargando un po’ il discorso e rendendolo meno lugubre, questo momento storico postmoderno ha relegato la morte molto lontano, quindi quando arriva come adesso in modo molto brutale si verifica una situazione estremamente anomala per la nostra società.
Abbiamo una società in cui siamo più legati al presente e facciamo fatica a ricordare il passato e anche un po’ il futuro. La morte è inserita nelle nostre società in una dimensione molto quotidiana e molto vitale. È parte del disegno della nostra partecipazione al Pianeta.
Questa consapevolezza nasce da molto lontano. Ad un certo punto i nostri antenati, e qui andiamo nell’archeologia, hanno pensato ad una sepoltura. Quando un gruppo umano ha deciso che un defunto del loro clan avesse bisogno di un posto in cui riposare per l’eternità ha fatto un salto culturale. Un rito è qualcosa che noi facciamo per una motivazione culturale. Tutte le popolazioni della Terra fanno un rito funebre ai loro defunti, pur con le varie differenze: la costante è l’accompagnare il nostro caro a passare da un’altra parte.
Tutti noi siamo uniti in questa forma di pietà nei confronti di un altro essere umano che viene a mancare.

La situazione di emergenza che stiamo vivendo non ci costringe soltanto a rimanere in casa, ma ci impedisce anche di dire addio ai nostri cari che muoiono. La nostra paura si può concentrare sul fatto che abbiamo molta paura di morire da soli?

Qui possiamo anche appellarci alla letteratura che ha trattato questo argomento in modo ampio. La morte ci trova soli e in effetti il momento del morire, così come quello della nascita, è uno di quelli che ci vede come individui. Nasciamo da soli e moriamo da soli. Fino all’altro ieri, però, potevamo morire o passare i momenti precedenti alla morte insieme ad altre persone.
Purtroppo il coronavirus, per questa sua particolarità di malattia respiratoria che prevede un isolamento totale, ci pone di fronte a questo problema non soltanto per chi se ne sta andando, ma anche per chi resta. Una parte dello strazio è certamente legata al fatto che non si può salutare la persona che se ne sta andando. Abbiamo visto che lo stanno facendo i medici e gli infermieri, persone che sono quasi sconosciute alle persone che muoiono. Questa situazione ci mette in evidenza la necessità dell’uomo di farlo e in questo caso sono gli operatori sanitari a mettersi a disposizione anche per questo tipo di necessità.

Foto dalla pagina Facebook dell’Esercito Italiano

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    Redazione
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    Chiara Bersani a Triennale Teatro: "Michel Petrucciani mi ha ispirata" Artista associata di Triennale Teatro per il triennio 2025-27, la coreografa e performer Chiara Bersani arriva a Milano con il suo ultimo spettacolo, The Animals I Am. Il lavoro è una evoluzione di due precedenti lavori, in cui Bersani ripensava i codici del balletto classico a partire da un corpo divergente, come il suo, a causa dell’osteogenesi imperfetta. Il nuovo progetto porta in scena tre performer con disabilità, per sfatare il concetto dell'artista disabile come "eccezione", con uno statement essenzialmente politico. Bersani si è ispirata al celebre pianista jazz Michel Petrucciani, che aveva la sua stessa condizione genetica, a sua volta audace nel suo modo di esprimere arte attraverso il proprio corpo. L'intervista di Ira Rubini.

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