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Bangladesh, 20 milioni bevono acqua all’arsenico

In Bangladesh, nonostante un articolato piano del governo attivo da diversi anni, ci sono ancora 20 milioni di persone che bevono acqua contaminata dall’arsenico.

La denuncia è contenuta in un rapporto dell’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch. Ogni anno morirebbero 43mila persone proprio per malattie legate all’assunzione di arsenico. Le accuse al governo del Bangladesh sono molto dure: il problema va avanti dagli anni ’90 e la situazione non migliora per il nepotismo e i calcoli elettorali della classe politica. Ma tra i responsabili ci sono anche i paesi donatori, le agenzie internazionali e le organizzazioni non governative.

Il Bangladesh è uno dei paesi più poveri al mondo. Ma per quale motivo, nonostante siano investite importanti risorse finanziarie, le cose non sono migliorate e migliaia di persone continuano a morire a causa dell’acqua contaminata? Ne abbiamo parlato con Richard Pearshouse, il ricercatore di Human Rights Watch che ha curato questo studio.

Quanto è grave la situazione?

“La presenza d’arsenico nell’acqua del Bangladesh è una questione antica. Le prime segnalazioni risalgono a una ventina d’anni fa. Ma dopo tutto questo tempo ci sono ancora 20 milioni di persone che bevono acqua contaminata. E dobbiamo ricordare che qui lo standard è già cinque volte più alto rispetto a quanto raccomanda l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Quindi in realtà l’acqua contaminata viene bevuta da 40milioni di persone“.

Come è stato possibile?

“Secondo il nostro rapporto la questione non è più tecnica. Un tempo il problema era ottenere acqua potabile, acqua di buona qualità. Oggi sappiamo come farlo, bisogna andare almeno a 150 metri di profondità, dove si trova acqua di qualità accettabile. Ci siamo quindi concentrati sul piano del governo per l’installazione di pozzi più profondi, visto che il governo ha messo in campo un grosso progetto. Abbiamo capito due cose. La prima: quando bisogna decidere dove installare i nuovi pozzi ci sono forti pressioni politiche a livello nazionale, da parte dei parlamentari, e a livello locale, da parte dei politici locali. E spesso la scelta non cade sui più poveri, cioè su quelle zone che avrebbero più bisogno di nuovi pozzi. Cade su chi garantisce voti, appoggio politico. È scritto nero su bianco che i parlamentari possono decidere la destinazione di almeno il 50% dei nuovi pozzi. Si tratta di un problema radicato nei meccanismi decisionali dello stato. Qui sta la radice del problema. La seconda risposta: diversi nuovi pozzi sono già contaminati. Noi abbiamo controllato 125mila pozzi installati tra il 2006 e il 2012 e 5mila erano già contaminati con l’arsenico. È una piccola percentuale ma comunque importante. Inoltre l’arsenico nell’acqua non si vede e non si sente. Si notano solo gli effetti sulla salute a posteriori. All’inizio il governo verificava la qualità dell’acqua e segnava i pozzi da sostituire. Poi si è fermato, convinto che il problema fosse risolto. Oggi sappiamo che non è così”.

Quali sono le zone interessate?

“L’acqua inquinata non è un problema delle grandi città, delle zone urbane, ma delle aree rurali, dove vive la popolazione più povera che spesso può installare solo dei pozzi superficiali dove è però è più alta la concentrazione di arsenico. A volte i pozzi sono profondi solo 15 metri”.

La responsabilità è solo del governo?

“No. Nel rapporto facciamo ovviamente raccomandazioni al governo, ma non solo. Ci sono raccomandazioni anche per i donatori internazionali. Ci sono due casi rappresentativi. Il primo riguarda l’Unicef, l’agenzia ONU per il diritto all’infanzia, che ha assistito e supportato il governo nell’installazione dei nuovi pozzi. Anche alcuni pozzi dell’Unicef erano contaminati. I suoi delegati sono però tornati sul campo e li hanno messi a posto. Il secondo riguarda la Banca Mondiale, che ha finanziato una parte del progetto del governo ma non ha mai verificato la qualità dei pozzi. Abbiamo chiesto alla Banca Mondiale se sapesse di siti contaminati, ci ha risposto che non aveva mai fatto una verifica. Se i donatori facessero subito i controlli si eviterebbero molti problemi e soprattutto si salverebbero tante vite umane. La gente pensa di bere acqua potabile e invece beve acqua contaminata“.

  • Autore articolo
    Emanuele Valenti
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    Sono passati otto mesi da quando Alberto Trentini, operatore umanitario in Venezuela, è stato fermato e arrestato senza motivazione dalle autorità venezuelane mentre svolgeva il suo lavoro per una ong internazionale. Da quel giorno Trentini è in isolamento totale, senza contatti con l'esterno e con la sua famiglia. La madre del giovane chiede al Governo di attivarsi come ha fatto in altri casi. "In questo momento che Alberto è ancora in vita, è fondamentale il ruolo dell'informazione" queste le parole di Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo21. Alessandro Braga ne ha parlato con il nostro collaboratore Lorenzo Marcandalli che segue quotidianamente la vicenda.

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