“Siamo preoccupati, siamo sotto pressione. Ci proibiscono di lasciare il Paese. Ma se sai di qualche cattedra libera all’estero, fammi sapere”. Così un ex-collega turco chiede aiuto a Raffaella Bianchi, che per 4 anni e mezzo ha insegnato in Turchia, prima di rientrare – l’anno scorso – in Italia.
Il professore che le ha mandato questo messaggio lavora all’Università Suleyman Sah di Istanbul. Dopo il tentato golpe, lui e i suoi colleghi hanno trovato una sorpresa: le ruspe del municipio hanno distrutto l’asfalto dell’unica strada che porta al campus, tanto che le auto e gli autobus non possono più passare (vedi foto qui sotto).
Interpellati dall’Università, i funzionari comunali invocano alcuni misteriosi “lavori stradali” da compiere. Ma intanto i docenti si sentono assediati e la loro preoccupazione è aumentata in modo esponenziale.
Questo succede in piena Istanbul, nella parte asiatica della città, non lontano dall’aeroporto Sabiha Gokcen. All’Università Süleyman Sah insegnano un centinaio di docenti. È specializzata in Scienze sociali e tutti i corsi sono in inglese. Tantissimi professori sono europei o statunitensi.
Dopo il tentato golpe del 15 luglio, le autorità turche hanno annunciato che 4000 docenti universitari saranno licenziati, mentre oltre 1500 rettori sono stati invitati a dimettersi.
Milanese, Raffaella ha insegnato prima per due anni all’Università Zirve di Gaziantep, nel Kurdistan turco, legata al movimento del predicatore Fetullah Gülen. Poi per due anni e mezzo all’Università Süleyman Sah di Istanbul, considerata da alcuni vicina ai gülenisti. L’anno scorso è rientrata in Italia a seguito di alcune minacce ricevute sui social network.
Ma le Università turche ora non sono chiuse per la pausa estiva?
“In Turchia non è come in Italia. I docenti hanno 21 giorni di ferie e – a parte queste 3 settimane – devono essere presenti in università anche se non ci sono lezioni. Mi hanno raccontato che il comune ha bloccato la strada senza preavviso, tanto che alcuni avevano parcheggiato l’auto all’interno del campus e ora non possono più uscire con la macchina: solo a piedi. Sono in preda allo sconforto. Mi hanno detto che non posso fare nulla per loro, se non segnalargli qualche opportunità di lavoro all’estero”.
Come è stato insegnare in un’università religiosa, legata al movimento di Gülen?
“Nelle Università in cui ho lavorato, il personale turco era credente. Ma c’erano anche tanti docenti stranieri non musulmani come me. Queste Università in genere sono proprietà di fondazioni religiose e si trovano nelle periferie, in zone povere di risorse e di servizi statali. Sono università create per gli studenti che hanno una inclinazione religiosa, ma le frequentano tutti: anche studenti non religiosi”.
I tuoi studenti?
“Io avevo sia studentesse col velo, sia senza il velo. Studenti di diverso orientamento politico, tanti curdi. In passato – nella Turchia laica – era proibito per le ragazze religiose portare il velo all’università, con il risultato che molte ragazze non studiavano. Le università di Gülen invece permettevano alle ragazze di frequentare le lezioni con il velo. Si tratta di università private, quindi c’è una retta da pagare (alla Suleyman Sah, circa 6500 euro l’anno, ndr), ma ci sono tante borse di studio per chi non ha i mezzi. Tanti studenti vengono da famiglie umili”.
C’era libertà di insegnamento? O il fatto che fossero università religiose vi condizionava, come docenti?
“I miei datori di lavoro hanno sempre rispettato la libertà di insegnamento. Io ero titolare della cattedra di Storia Europea. Non c’era nessun problema a parlare di temi considerati “sensibili” in altre università turche laiche, come il genocidio degli armeni o la repressione nei confronti dei curdi”.
Nessuna direttiva dai vertici?
“Quelli che erano al vertice dell’Università erano gülenisti, ma fra i docenti non si avvertiva nessun condizionamento. L’unico momento in cui mi accorgevo di lavorare in un’università religiosa, era quando toglievano i distributori d’acqua nei corridoi durante il Ramadan. Io ero libera di insegnare come volevo e di pubblicare quello che volevo. Ad esempio ho pubblicato degli articoli su Gezi Park e miei superiori non mi hanno detto nulla, anche se i gülenisti non erano a favore di Gezi”.
I libri di testo?
“Per quanto riguarda i libri di testo, nessun problema: usavamo quelli della Oxford University Press o di Pearson. Il materiale scolastico era modernissimo: avevo a disposizione lavagne luminose multimedia touch screen, che non si sono neppure in Italia… I nostri studenti erano inseriti nel programma Erasmus e ne abbiamo mandati diversi nelle università di tutta Europa”.
Perché hai lasciato la Turchia?
“Prima ho lasciato il Kurdistan. Nel 2012 ho lasciato l’università Zirve di Gaziantep perché non mi sentivo più al sicuro in quella città. C’erano stati degli attentati. È troppo vicina alla Siria: Aleppo è a due ore di auto. Nel 2011 ho visto arrivare i primi profughi che fuggivano dalla guerra. Ricordo una donna anziana arrivata con un sacchetto di plastica in mano. Tutto quello che aveva era in quel sacchetto nero. Questo incontro mi ha cambiato profondamente”.
Dove si rifugiavano i profughi siriani?
“Dove potevano. Alcune famiglie siriane si sono stabilite nel residence dove abitavo. Ricordo che col telefonino davano istruzioni ai parenti su quale via prendere per fuggire dalla Siria. Adesso in alcune città Kurdistan c’è il coprifuoco. Il governo, per la prima volta, ha portato la guerra nelle zone urbane. Ci sono i carri armati in mezzo alle case. La gente non può uscire per giorni, la luce viene tagliata. Trovo che se ne parli poco, rispetto alla gravità di quello che accade”.
Dunque ti sei trasferita a Istanbul.
“A Istanbul andava tutto bene, finché non ho scritto un articolo su una rivista accademica italiana che parlava della repressione nei confronti del movimento gülenista. Non c’era nulla di nuovo in quell’articolo: ho scritto cose già note in Turchia, riportate da tutti i giornali. Ad esempio che la banca di Gülen era stata nazionalizzata: è un dato di fatto. Ma ho ricevuto diverse critiche sui social network e inviti a rettificare l’articolo. Mi accusavano di avere usato fonti non credibili, di scrivere quelle cose perché ero anch’io gülenista: un’assurdità”.
Da dove venivano quei commenti?
“Quelle critiche non venivano certo dal governo, ma da simpatizzanti dell’AKP, il partito di Erdogan. A quel punto i miei colleghi turchi mi hanno consigliato di lasciare il paese. La Turchia è un paese dove le mezze frasi o i silenzi possono avere più peso delle minacce esplicite. Mi hanno consigliato di non pubblicare più nulla finché non avessi lasciato la Turchia. Adesso sono in Italia, ma non ci sono opportunità di insegnamento. Ho appena concluso un semestre come visiting lecturer alla Westminster University di Londra”.
C’è il movimento di Fetullah Gulen dietro questo tentato golpe, secondo te?
“Non saprei. Certo per Erdogan è facile accusare Hizmet, perché il movimento era stato coinvolto nel precedente colpo di stato, quello del 1980, a cui seguì una forte repressione. Per questo tanti turchi non sopportano Gülen e i suoi seguaci. In questo momento c’è un’enorme ondata emotiva contro il movimento. È in corso una lotta interna fra gli islamisti in Turchia. Ma temo che il problema non sia più solo Gülen. Temo che le libertà politiche nel paese siano destinate a scomparire”.
Che cosa ti sembra più grave?
“Mi preoccupa molto il fatto che ai professori universitari ora sia stato impedito di espatriare. Cosa sono, dei criminali? Eppure sento una mancanza enorme della Turchia, mi piacerebbe tornare a insegnarvi. Mi sento anche un po’ turca: ho trascorso lì 4 anni importanti della mia vita. Ho vissuto la ventata di libertà portata dalla protesta di Gezi Park. Adesso è come se ci fosse la restaurazione”.