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Hammamet, intervista a Gianni Amelio e Pierfrancesco Favino

Hammamet Film

Hammamet, il film di Gianni Amelio dedicato agli ultimi mesi di vita di Bettino Craxi, ha diviso il pubblico e la critica nel ventennale della morte del politico. Abbiamo intervistato il regista del film e il protagonista Pierfrancesco Favino.

L’intervista di Barbara Sorrentini a Chassis.

Cosa ti ha affascinato di questa figura e come ti hanno coinvolto i vari aspetti della sua vita?

Mi hanno coinvolto non solamente riferiti alla figura di Bettino Craxi. Non a caso io non pronuncio mai il suo nome, perché in realtà il racconto tende un po’ ad essere allegorico: un uomo che ha perso il potere, un re che ha perso la corona come vivere la sconfitta. Nella figura di Craxi esiliato, recluso o clandestino ad Hammamet si legge tutta intera la parabola di uno che non perdona e non si perdona gli errori fatti, sia quelli che individua come tali, sia quelli che crede ingiustamente scambiati per errori. La fine che si avvicina, la strada che diventa più corta, la malattia che corrode il corpo e quindi l’ingiustizia sentita anche in modo ingigantito. Non parliamo certo di una persona la cui traiettoria è stata sempre limpida. Un uomo discutibile, oltre che discusso, però proprio questo è l’aspetto bello dal punto di vista drammaturgico. Io la storia di un re che regna non saprei farla, ma di un re che ha smesso di regnare e sa che la vita lo sta abbandonando è un soggetto appassionante che riguarda tutti, anche chi non è stato politico o non è stato socialista.

Molti infatti hanno sottolineato l’assenza della parte politica. È evidente che si tratta di una scelta, come ha già spiegato. Quello sarebbe stato un altro film.

C’è gente che va a vedere Biancaneve e spera di trovare Cicciolina o viceversa. Io ho fatto un film che è chiaramente un film metaforico sul potere e non credo assolutamente a chi mi dice che manca la politica. Manca la cronaca, quella che si consuma nell’arco di un giorno. Io avrei potuto prendere migliaia di giornali, prendere le prime pagine e raccontare gli aneddoti della dissoluzione del partito. Non l’ho fatto perché mi sembra un’operazione inutile. C’è tanta gente superficiale abituata alla superficialità che ama la superficialità e vuole le cose semplificate, spiattellate e spiegate. La cosa bella del cinema, però, è anche l’emozione che ti danno i silenzi, i misteri, le domande alle quali tu spettatore puoi dare una risposta.

Come hai ritrovato questa parte più intima e interiore del personaggio?

Devo essere banale per essere onesto: si scava sempre dentro noi stessi quando si racconta qualcosa. Anche se si parla di un uomo pubblico, guai se il regista non scava nel proprio mondo personale. Io ho fatto un film su Camus, “Il primo uomo“, e mi ricordo che la figlia di Camus, quando si trattò di leggere la sceneggiatura, mi disse “spero che lei abbia raccontato di sé e non di mio padre“. E questo è vero, perché ci si deve mettere in gioco e io in qualche misura mi sono messo in gioco parlando di Craxi, anche coraggiosamente perché mi sono attirato e mi attiro ancora strali da tutte le parti. Ognuno mi vuole dalla sua mano, io lo sapevo e l’avevo messo in conto.
Però era l’unico modo per essere sinceri: mettersi in quei panni ha fatto uscire fuori l’uomo e il politico insieme. Si capiscono i problemi, i dolori, le gioie e i passi falsi perchè l’autore li ha fatti propri.

Nel tuo far proprio c’è una licenza poetica, il personaggio di Fausto che richiama forse più al tuo cinema che alla storia di Craxi. Chi sarebbe?

Il discorso potrebbe essere lungo, ma lo faccio molto breve. Il presidente ha dentro un senso di colpa devastante e questo senso di colpa lo porta a essere violento contro il Mondo e la materializzazione di questo ragazzo che nasconde tante cose è come se fosse la sua coscienza che prende corpo. Io spero che il pubblico legga il film come un thriller, anche perché a modo suo è anche un thriller. E l’ultima sequenza è una rivelazione.
Nelle cose che si raccontano nell’ultima sequenza non ci sono tante cose vicine a quelle che ha fatto probabilmente o che avrebbe voluto fare o che vorrebbe fare il presidente. C’è un film che io cito nel mio film, che si vede in televisione, che ha un titolo in italiano meraviglioso dal punto di vista dell’immaginazione che porta avanti e che suscita nello spettatore, “Le catene della colpa”, un film in cui le colpe vanno di padre in figlio.

Hammamet, intervista a Francesco Favino

Hammamet

Che effetto ti ha fatto vederti completamente truccato la prima volta?

Beh il dovermi abituare all’idea di questo passaggio. L’avevo ipotizzato e pensato molto, però c’è stato un momento in cui ho chiesto di star da solo col trucco. Ho voluto fare una prova di trucco e starci insieme per un po’ nello studio dove preparo il lavoro. Avevo bisogno di capire che effetto mi faceva dentro questa cosa ed è stata una delle cose che poi mi sono portato dentro sempre di più durante il film. È una modalità diversa di approccio al lavoro.

Che lavoro e che ricerca hai fatto per ritrovare il personaggio più vicino?

Una ricerca di osservazione e mi sono posto tante domande. Mi sono chiesto il perché di tanti comportamenti e cosa significavano alcune sue abitudini. Non sto giudicando l’uomo o il politico, ma la passione politica. Io ho avuto la sensazione che fosse un uomo abitato dalla passione politica.

Girare nel luogo vero quanto ti ha dato?

Io ho incontrato solo una volta la figlia Stefania prima di iniziare il film. Ho voluto incontrare lei per farle capire che il rispetto che avevo dell’idea di dover entrare in punta di piedi negli affetti familiari che non avevano nulla a che vedere con la figura pubblica dell’uomo. Ho chiesto in qualche modo il permesso di poterlo fare, mi sembrava la cosa più giusta e corretta.
Il luogo è stato molto forte entrarci per la prima volta dopo averlo intravisto nelle interviste a Craxi. Capire la geografia della casa o vedere un luogo abitato, perché lo è ancora oggi. C’è qualcosa che il video non può darti, dagli odori alle abitudini di una famiglia. Ha i suoi spazi, ha le foto private e questo è stato emozionante. Mi aspettavo probabilmente una casa più sfarzosa di quella che ho visto.

Sia Paolo Pillitteri che Bobo Craxi hanno detto che lo hanno ritrovato in te. Questa cosa ti gratifica?

Mi gratifica enormemente anche perché i due casi specifici sono due casi che hanno vissuto non solo l’aspetto esteriore e politico, ma l’hanno conosciuto molto profondamente. Vuol dire che le ipotesi di cui parlavo prima hanno colpito nel segno.

Che utilizzo fai dei social network?

Lo uso anche per questo lavoro. Io ho fatto un diario personale perché sapevo e sentivo che sarebbe stata un’esperienza particolare. È nato come diario privato, ma molto spesso mi capita di percepire che c’è una distanza molto forte tra quello che facciamo e quello che le persone sanno di come lo facciamo. Il desiderio di condividere nasce anche dall’avere un contatto con le persone, anche se attraverso un mezzo che non lo prevede da un punto di vista fisico.

Foto dalla pagina ufficiale di 01Distribution su Facebook

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    Un episodio della guerra ibrida russa. E, di più, un test delle capacità di reazione europee e Nato sulla capacità di reazione a un tentativo di aggressione. E' la lettura del lancio di droni russi in Polonia del professor Francesco Strazzari, docente alla Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa. L'intervista di Luigi Ambrosio a L'Orizzonte delle Venti, programma di approfondimento serale di Radio Popolare.

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    Svizzero-tedesca, Ursina Lardi, una delle più grandi protagoniste della scena contemporanea europea, sarà fra poco in scena alla Schaubühne di Berlino con “Die Seherin” (La veggente) del pluripremiato drammaturgo e regista Milo Rau. Lo spettacolo, che è stato ospite all’ultima Biennale Teatro di Venezia, in occasione dell’assegnazione del Leone d’Argento a Ursina Lardi, è una spietata analisi dei fronti di guerra, osservati da una inviata speciale, assetata di attualità dell’orrore. Ma sarà lei stessa a subire la violenza che si sprigiona da un conflitto, diventando testimone della crudeltà inutile delle guerre. L’intervista di Ira Rubini.

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