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Guerra in Palestina, la protesta degli studenti milanesi

manifestazioni studentesche pro palestina

Anche a Milano gli studenti e le studentesse si stanno mobilitando per la Palestina. Come nei campus americani e in un centinaio di università europee, la modalità della protesta è quella delle tende. Ci sono due accampamenti a Milano: all’Università Statale in via Festa del Perdono e fuori dal Politecnico. Gli studenti dei collettivi e dei giovani palestinesi chiedono agli atenei di rompere gli accordi con le università israeliane e di attivarsi per dare solidarietà concreta alla popolazione di Gaza. Per Giorni Migliori, Roberto Maggioni ha intervistato Jawan e Chiara, due studentesse accampate nel chiostro dell’Università degli Studi di Milano

Venerdì scorso sembravano esserci circa quaranta tende, ma ora sembra ce ne siano un po’ di più anche sotto i portici del chiostro, si è aggiunto qualcuno alla protesta?

Chiara: “Credo che il picco di presenze sia stato proprio ieri sera. Molte persone sono passate oltre a mettere la propria tenda, magari solo per dare il loro supporto, fare donazioni di qualsiasi tipo o semplicemente godersi un po’ la serata. Ieri c’era anche una banda di ottoni che intratteneva. Questo è molto importante. Ma oltre al supporto che tantissime persone ci stanno dimostrando passando in questi giorni, il numero di tende è effettivamente aumentato. In questi due-tre giorni è già cresciuto, e speriamo che continui a farlo sempre di più”.

Come sono andate queste ultime nottate? Si sono verificati problemi?

Chiara: “La situazione è stata abbastanza tranquilla, anzi abbiamo riempito il nostro tempo con discussioni, riunioni politiche e conversazioni riguardanti i nostri obiettivi e le nostre richieste su come vogliamo portarle all’interno dell’università. Abbiamo anche organizzato varie attività. È stato tutto piuttosto tranquillo e siamo riusciti a prepararci per oggi, il primo giorno di lezioni dopo l’accampamento. Sono accadute alcune piccole cose, ma eravamo pronti a gestirle”.

Oggi è il giorno in cui riapre la Statale e gli studenti tornano all’università. Cosa vi aspettate? Avete già ricevuto reazioni o commenti da parte di qualcuno?

Chiara: “Finora, per quanto riguarda le persone contrarie alla nostra causa, abbiamo avuto solo un paio di individui abbastanza violenti. Fortunatamente, sono stati prontamente allontanati e non abbiamo avuto grandi problemi questa mattina.Questo è un momento cruciale per noi. Oggi l’università ci vede con i propri occhi e non solo attraverso uno schermo. Dopo questi giorni iniziali, stiamo lavorando per consolidare la nostra presenza. Distribuiamo volantini e organizziamo lezioni aperte in giro per il campus, con il supporto di professori e professoresse solidali che hanno deciso di trasferire le loro lezioni qui”.

Jawan: “Adesso è in atto una lezione nell’atrio centrale. Ci stiamo muovendo anche all’interno dell’università. Ci aspettiamo che il nostro accampamento si espanda sempre di più e diventi sempre più numeroso”.

Ci avete già detto di essere due studentesse, ma fate anche parte di collettivi studenteschi

Jawan: Faccio parte dei Giovani Palestinesi di Milano e Chiara è del collettivo studentesco Rebelot

Come vi siete avvicinati alla questione israelo-palestinese?

Jawan: “Siamo un gruppo di giovani palestinesi e siamo coinvolti nella causa sin dalla nascita. Da mesi, anzi, anni, ci stiamo mobilitando anche nelle università per porre fine agli accordi con le università israeliane, poiché consideriamo Israele uno stato coloniale. L’urgenza non è certo nata dopo il sette ottobre, ma dato l’attuale genocidio in Palestina, ci siamo uniti e abbiamo creato un coordinamento di realtà studentesca attraverso il quale portiamo avanti la nostra lotta.Come palestinesi in Italia, ci impegniamo a far sentire la voce della resistenza palestinese, dando forza alla causa anche qui”.

Qual è l’obiettivo di questa protesta? Te lo chiedo anche in quanto giovane palestinese in diaspora

Jawan: “Il nostro obiettivo, sia per noi che per tutti gli studenti accampati in Italia e nel mondo, è chiaro: vogliamo che le università interrompano gli accordi con le istituzioni accademiche israeliane che si sono rese complici del genocidio in Palestina”.

Tu Chiara? Quando hai iniziato a interessarti alla causa e alla situazione nel Medio Oriente?

Chiara: “È da anni che, come movimento studentesco, ci interessiamo alla causa, siamo consapevoli che questo problema è nato ben prim del 7 ottobre. In Palestina, da oltre 75 anni, continua un regime di occupazione e apartheid. Rebelot è nato proprio durante questo ultimo periodo e non potevamo ignorare un genocidio. La questione palestinese è ora la nostra priorità assoluta.

Abbiamo messo da parte ogni altra lotta politica, concentrandoci sulla Palestina. Vogliamo Utilizzare il nostro privilegio di persone bianche nate in Occidente per dare voce a coloro che chiedono solidarietà in Palestina. Intendiamo replicare le azioni degli studenti che protestano in tutto il mondo per amplificare la mobilitazione.

Jawan: “La lotta palestinese non riguarda solo i palestinesi. Stiamo chiedendo alle persone di liberare il loro spazio dagli apparati che opprimono altri popoli, come Israele. I sistemi utilizzati da Israele in Palestina si riflettono anche in altre parti del mondo.

L’oppressione in qualsiasi luogo del mondo dovrebbe indignare tutti noi. Chiediamo alle persone, italiane e non, di liberare il loro spazio di conoscenza. Non possiamo permettere che le aziende che finanziano la guerra finanzino anche le università. Per questo cerchiamo di collaborare anche con altre realtà, come gli attivisti per il clima e per il trans femminismo”.

Attualmente siete accampati all’interno dell’Università Statale, mentre in altre città ci sono accampamenti all’esterno. Oggi si terrà una riunione tra l’amministrazione, il Ministro dell’Interno, i vertici della polizia e i rappresentanti dei rettori italiani, durante la quale sarà decisa la linea da seguire. Quali sono le vostre aspettative in merito? Cosa siete pronti a fare?

Jawan: “Ieri abbiamo preparato una lettera in vista dell’incontro dei rettori, dove abbiamo esposto le nostre richieste. È importante sottolineare che l’accampamento di oggi non è stata la nostra prima scelta, ma è arrivato dopo mesi di mobilitazioni e tentativi di dialogo con i rettori. Tuttavia, questo dialogo è stato solo un facciata, le nostre richieste sono state ignorate e svilite. Invieremo quella lettera per ribadire le nostre richieste e quelle degli studenti che occupano questi spazi”.

Finora, negli accampamenti sparsi per l’Italia nelle decine di città dove sono presenti, non si sono verificati problemi di ordine pubblico rilevanti, quindi non ci sono pretesti. Tuttavia, è fondamentale vedere anche cosa chiederanno i rettori. Che aria tira? Vi aspettate una linea più dura?

Jawan: “Ci aspettiamo due possibili risposte. La prima potrebbe essere una dichiarazione neutrale del tipo “noi supportiamo tutti i popoli per la pace e contro la guerra”, ma in questo contesto sarebbe estremamente pericolosa, poiché equivale a essere complici del genocidio. Non c’è spazio per la neutralità in una situazione del genere. La seconda possibilità potrebbe essere una repressione all’interno dell’università.

Ci stiamo preparando a proteggere il nostro accampamento fino a quando le nostre richieste non saranno soddisfatte”.

Chiara: “Chiaramente, se dovesse avvenire una repressione, sarebbe un’altra dimostrazione di intolleranza verso chi esprime un dissenso rispetto alle complicità del nostro governo”.

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    Dal 7 ottobre 2023, secondo i dati in possesso della Wafa la Palestinian News and Information Agency, i coloni hanno effettuato 7.154 attacchi in Cisgiordania, danneggiando 37.237 ulivi, ucciso 33 palestinesi in questi attacchi. Alcune comunità palestinesi come quella di Masafer Yatta vicino a Hebron sono sotto perenne minaccia e non riescono più a mandare i figli a scuola o coltivare i loro campi. In questi luoghi operano alcuni attivisti israeliani e occidentali della nonviolenza attiva e tra questi c’è Tex (soprannome), una ragazza italiana che è arrivata in Cisgiordania con l’Operazione Colomba, il progetto della Comunità Papa Giovanni XXIII che dal 1992 porta la nonviolenza in zone di guerra (iniziato in ex-Jugoslavia ha operato in America Latina, nel Caucaso e in Medio oriente, in Palestina è presenta dal 2002). Ci racconta di come la violenza sia enormemente aumentata e di storie esemplari come quella della famiglia Huraini o quella della Youth od Sumud formazione politica di base che si oppone al colonialismo israeliano, formata da contadini e attivisti che vivono in tende e case ricostruite presso villaggi minacciati dai coloni israeliani dal 2017 sulle colline a sud di Hebron. L’intervista di Cinzia Poli e Claudio Jampaglia.

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    Le forme della violenza maschile, dopo il femminicidio di Pamela Genini a Milano e l'omicidio in pieno centro a Palermo di Paolo Taormina. Con Assunta Sarlo, giornalista e saggista, tra le fondatrici del movimento femminista «Usciamo dal silenzio», l’analisi dei diversi “moventi” riconducibili a violenze maschili. Da un lato la cultura patriarcale, l’esercizio maschile del possesso e del dominio sui corpi delle donne che porta ai femminicidi. Dall’altro la violenza omicida praticata per l'affermazione di sé e per costruire un potere maschile dell'intimidazione. Pubblica ha ospitato anche Chiara Saraceno, sociologa della famiglia, sull’educazione sessuale e all'affettività che la destra in Italia vuole bandire dalle scuole elementari e medie e – alle superiori - condizionare ad una firma dei genitori.

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