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Gita a Chernobyl

Una gita di un giorno a Chernobyl costa circa 100 euro, compreso il pranzo, le spiegazioni di una guida e il tragitto in pullman da Kiev. Nell’area che più fu investita dalle radiazioni – infatti – non si può entrare autonomamente. Bisogna affidarsi a un’agenzia che vegli sul rispetto delle regole: non toccare nulla, non asportare nulla dalla zona proibita, restare sui sentieri, fare lo screening anti-radiazioni quando si esce.

La centrale è ormai diventata un’attrazione e un business da migliaia di turisti all’anno, in Ucraina. Solo le agenzie autorizzate possono organizzare la visita della contaminata, che comprende anche la possibilità di trascorrere una o più notti sul posto per chi lo desidera. “La vostra visita sarà assolutamente priva di pericoli in quanto a radiazioni” dice la pubblicità su internet. “Riceverete meno radiazioni che durante un volo transatlantico”. “I nostri pullman passano lontano dalle aree più pericolose”. Si tratta dai campi a Nord e a Ovest del reattore 4, investiti in pieno dalla nube radioattiva. Per chi non si fida, c’è la possibilità di noleggiare un misuratore di radiazioni da portare con sé.

Dovrebbe essere una visita di gruppo, ma la mattina dell’appuntamento il pullmino a Kiev è vuoto. C’è solo Liuda, la guida, una ragazza ucraina di 23 anni. “Da quando i russi si sentono nostri nemici e non vengono più in vacanza in Ucraina, il numero di visite è calato” spiega. Cosa spinge una giovane ad andare in un luogo radioattivo così spesso? Non ha paura? “Mi pagano bene. E i miei genitori lavorano entrambi in una centrale nucleare. Sono abituata all’idea” è la risposta.

La Zona – così tutti la chiamano – esercita una forte attrazione per Liuda, come un qualcosa di spaventoso che poi si impara a conoscere e diventa quasi familiare. E’ chiaro che per lei non è soltanto un lavoro: è affascinata dalla storia della centrale. Ne conosce ogni dettaglio. Sembra un ingegnere nucleare, quando parla delle radiazioni; sembra una testimone oculare dell’esplosione, da come la descrive. Ma all’epoca, quel 26 aprile 1986, c’era ancora l’Unione Sovietica e lei non era ancora nata.

Fare una domanda a Liuda vuol dire ottenere una cascata di storie: ogni costruzione della Zona per lei ha un significato e ricorda una persona, una vicenda, l’atto eroico di qualcuno che salvò molte vite. Inoltre, Liuda conosce tutte le guardie che controllano l’accesso della Zona, conosce i tecnici che vi lavorano e conosce quasi tutti gli abitanti abusivi della Zona.

Abitanti abusivi? “Non aspettatevi un’area deserta!” avverte. I divieti – infatti – non hanno impedito ad alcuni vecchi abitanti di Chernobyl di tornare a vivere nel bosco. Andiamo a incontrarli nelle loro case di legno decrepite, assediate dalla vegetazione, mentre coltivano orti radioattivi. Sono tutti così anziani che non badano al rischio: sanno che prima o poi moriranno e preferiscono farlo a casa loro. Soffrono di solitudine e accolgono Liuda come una figlia che va a trovarli.

Nel villaggio abbandonato di Chernobyl ora fannno base i tecnici che si occupano della messa in sicurezza della centrale e di decontaminare la Zona. Hanno scelto di lavorare qui perché vengono strapagati rispetto ai normali stipendi ucraini e hanno tanto tempo libero. Fanno turni di 15 giorni e poi possono trascorrere 15 giorni a casa. Nessun timore delle radiazioni? “Prima lavoravamo in una miniera di uranio” rispondono alcuni. Pranziamo alla loro mensa dove il cibo – avvertono dei cartelli – è tutto portato da fuori, sano e non contaminato.

Chernobyl Church

Nella chiesetta restaurata di Chernobyl c’è il vecchio prete ortodosso che dice messa. Assicura che attorno all’altare le radiazioni non ci sono. Misteri della fede. Il prete viene ogni tanto a celebrare matrimoni e persino battesimi: ci sono famiglie che abitavano qui da generazioni e che non rinunciano a celebrare a Chernobyl i loro riti. Per entrare nella Zona, chiedono un permesso speciale. Il piccolo Vladislav ha solo 2 mesi, ma i suoi genitori non hanno esitato a portarlo accanto alla vecchia centrale per il battesimo. Ma non era vietato l’ingresso ai minori di 18 anni nella Zona? Eppure c’è scritto su tutti i cartelli…

Una delle parti più spettacolari della visita è l’arrivo a Pripyat, città modello (ora abbandonata) creata apposta per i lavoratori della centrale. Le autorità sovietiche, dopo l’esplosione, aspettarono 3 giorni a dare l’ordine d’evacuazione e in quei tre giorni gli abitanti – ignari – assorbirono una quantità di radiazioni spropositata. Tutto è stato lasciato com’era: i piatti sul tavolo della mensa, i palloni in palestra, le carte sulle scrivanie degli uffici. Vennero dei pullman e in poche ore portarono via tutti.

chernobyl palestra

Aggirandosi per la città silenziosa e deserta, si sentono solo le voci della natura: insetti, il vento, gli uccelli. Il pericolo – in fondo – non si vede: l’area proibita di Chernobyl è invasa da una vegetazione lussureggiante e normalmente verde. “Una volta all’anno l’ingresso è libero per gli ucraini e molti vengono qui a fare un picinic” racconta Liuda. Quando si vive così vicini al pericolo, è meglio fare finta che nulla sia successo, o avere paura?

Infine eccola, la Centrale. Per pochi minuti ci si può avvicinare. Il limite è un parcheggio a poche centinaia di metri dall’edificio. Gli operai che lavorano alla costruzione del grande involucro bianco che avvolgerà il sarcofago sono ancora più vicini alla fonte delle radiazioni. L’edificio visto tante volte nelle foto è lì davanti, immobile, sotto un cielo fermo, primaverile.

Chernobyl

All’uscita dalla Zona, il controllo anti-radiazioni dura solo pochi secondi. Sembra di essere all’aeroporto e di entrare in un metal detector: la macchina ti ronza intorno, ti esamina e ti libera. Per i tecnici che hanno finito i loro turno di lavoro è una rapida routine. I visitatori si chiedono: “ma saranno controlli affidabili”?

Una volta a casa, vestiti e scarpe finiscono direttamente nel cassonetto: non sia mai che vi sia rimasta impigliata qualche particella radioattiva. Dicono che non dovrebbe succedere, ma non si sa mai.

  • Autore articolo
    Michela Sechi
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    Tommy WA: la nuova promessa del folk africano si racconta a Radio Pop

    L'abbiamo scoperto con l'EP "Somewhere only we go" e oggi a Volume abbiamo avuto modo di conoscere meglio la storia di questo cantautore nigeriano, che si è poi formato musicalmente in Ghana: "Nel corso degli anni le nostre musiche si sono fuse: l'highlife ghanese, il palm-wine, il folk di Kumasi, il suono contemporaneo della chitarra. Ho potuto unire questi due mondi, mescolandoli con le radio occidentali che ascoltavo da ragazzo". Il risultato è un folk pop pieno di anima e di profondità: "Il mio obiettivo non è solo una carriera internazionale, ma costruire qualcosa in Africa. Voglio creare una struttura che funzioni per artisti come me, gente con una chitarra o un tamburo, artisti contemporanei che non hanno modo di raggiungere il loro pubblico". Ascolta l'intervista di Niccolò Vecchia a Tommy WA.

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