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Ci vuole orecchio: come nacque un classico della musica italiana

Gino Vignali

Il 21 Marzo è uscito il nuovo romanzo di Gino Vignali, Ci vuole orecchio, la seconda parte della tetralogia ambientata a Rimini. Pubblicato da Solferino Editore, il romanzo racconta le indagini su una serie di omicidi irrisolti guidate dall’investigatrice Costanza Confalonieri Bonnet. Lo abbiamo intervistato a Cult su Radio Popolare.

Esaurita la parte più intensa dell’esperienza di Zelig ti sei interrogato sul da farsi: se iniziare a guardare cantieri come molti fanno oppure metterti a scrivere.

Sono stato incertissimo perché la prima fase del dopo Zelig l’ho passata effettivamente a fare quello che fanno tutti i pensionati quindi ad ammazzare il tempo. Dopo di che ho detto: sì bello, rilassante, tranquillo però forse c’è di meglio. Allora ho provato a fare quello che non facevo più da tanti anni. Perché in realtà il nostro impegno a Zelig, mio e di Michele, non era tanto quello degli autori ma era quello dei capi progetto, quello degli organizzatori. Un’esperienza che è durata vent’anni quindi non ero sicuro di essere ancora in grado di tenere la penna in mano. Ho provato a testarmi.

Il primo esperimento è stato La chiave di tutto, era il primo romanzo sempre ambientato a Rimini, sempre con Costanza Confalonieri Bonnet che è la tua investigatrice bellissima, bravissima, unica e perfetta ed è l’unico personaggio dei tuoi libri a non essere ispirato a qualcuno che hai incontrato nella vita reale.

Sì, perché lei è talmente “perfetta” che secondo me non esiste in natura. Quindi non ho potuto ispirarmi a nessuno che conoscessi: ho dovuto prendere un pezzo dell’intelligenza di una, la simpatia di un’altra, la bellezza di un un’altra ancora. Ho fatto questa specie di mostro, di Frankenstein, che ha comportato una serie di rischi. Per esempio quello di risultare antipatica perché una persona che non ha difetti è difficile che risulti simpatica. È una sfida che ho accettato pensando di riuscire a mitigare questo potenziale limite con la scrittura, con uno stile molto leggero o almeno non eccessivamente pesante.

Alcuni dei personaggi sono ispirati a personaggi che conosciamo anche noi, almeno artisticamente. Silvio Orlando ha ispirato l’ispettore Appicciafuoco che è un latinista, un erudito. Poi Teo Teocoli ha ispirato un altro personaggio giusto?

Sì, il patrigno di Costanza Confalonieri Bonnet che è la protagonista. Perché mi risultava molto più semplice. Sono tutte persone con le quali ho lavorato e per le quali ho scritto. Dovendo affrontare questa esperienza nuova, cioè scrivere senza intermediari, scrivere direttamente per il lettore e non per l’interprete, mi veniva più facile conoscere fisicamente i personaggi dei quali parlavo e ai quali facevo dire battute, dialoghi eccetera. I due esempi che hai fatto sono perfetti cioè Silvio Orlando è l’ispettore capo della squadra mobile di Rimini mentre Teo Teocoli è il vecchio comico e anche compagno della madre della protagonista, lo si capisce benissimo, altri non si capiscono. Cioè il lettore capisce questi riferimenti, in particolare su Teocoli è proprio evidente, anche perché il personaggio si chiama Leo. Peraltro lui lo sa benissimo, per cui mi telefona praticamente tutti i giorni chiedendomi “Allora la facciamo questa fiction o no?”, io gli rispondo “Guarda che sì, ma non dipende più da me cioè l’opzione l’ho ceduta ma non è che abbia voce in capitolo” e allora mi dice “Eh ma io ho 74 anni non è che posso aspettare tutta la vita che gli altri si decidano”.

Quindi possiamo ipotizzare che in futuro diventi anche un prodotto cinematografico?

Sì, c’è molto interesse. Io l’ho scritto anche per quello perché il mio mestiere sostanzialmente è stato quello di scrivere per la televisione.

Immagino che tu abbia previsto di scriverne altri perché sono stagionali: hai cominciato con l’inverno.

Sì, una tetralogia. Sono quattro romanzi che coprono le quattro stagioni perché mi piaceva l’idea di far vedere come un posto cambia, Rimini in particolare, in funzione delle stagioni. Tutti i posti cambiano in funzione delle stagioni però secondo me a Rimini è più evidente, perché l’immagine che si ha di Rimini è quella legata a luglio-agosto. Però Rimini è una città che d’estate sembra Miami ma d’inverno è Cortina! Cioè non è San Remo in cui si va a svernare, lì si va a invernare, fa un freddo della Madonna. Ma soprattutto la neve: nel primo romanzo che è ambientato in febbraio c’è una Rimini sotto un metro di neve che non è inventata perché può succedere. Quindi mi piaceva questa idea di far vedere Rimini come cambia attraverso il cambiare delle stagioni. Naturalmente Rimini perché la conosco molto bene, non è scelta a caso: mia mamma era di Rimini quindi ci ho passato lunghi periodi della mia vita.

È un cold case questo romanzo: viene ritrovata una valigia con dentro degli ossicini tanto da far pensare a una bambina. Ci sono alcuni personaggi direi archetipici: l’ereditiera ricca ma infelice, un’organizzazione misteriosa, ci sono avvocati che non si capisce bene da che parte stiano, è una specie di spectral all’italiana. Ma il titolo è importante Ci vuole orecchio fa subito pensare a una canzone, però ci sono anche altre spiegazioni.

Allora la giustificazione, ammesso che ci sia bisogno di una giustificazione del titolo, è che la soluzione di uno dei due filoni di indagine che formano il libro è legata al senso dell’udito. A quello che si chiama l’orecchio perfetto, che hanno di solito molti musicisti, in particolare gli accordatori che sono in grado di accordare gli strumenti senza ricorrere ad altri strumenti. Quindi ci voleva qualcosa legato all’orecchio, è chiaro che a quel punto mi è venuto in mente Ci vuole orecchio di Jannacci perché ha una storia molto particolare e molto legata a Radio Popolare.

Allora la premessa è che Ci vuole orecchio l’abbiamo scritta io e Michele insieme a Enzo Jannacci. L’abbiamo scritta nel 79-80 quindi sono 40 anni e nasce a Radio Popolare. In quel periodo a Milano c’era il Corriere d’informazione, uno dei tre quotidiani del pomeriggio insieme a La Notte e al Corriere Lombardo. Però alla fine degli anni 70 cominciarono ad andare in crisi e la Rizzoli decise di chiudere il Corriere d’informazione per sostituirlo con un quotidiano sulla falsariga dei quotidiani inglesi tipo il Daily Mirror, questo quotidiano si chiamava L’occhio. Allora noi che lavoravamo a Radio Popolare decidemmo di fare una parodia de L’occhio di Maurizio Costanzo. Siccome lavoravamo in radio la parodia non poteva essere l’occhio ma l’orecchio! Per cui abbiamo fatto una trasmissione che si chiamava L’orecchio, era una specie di magazine pieno di umanità varia e di rubriche. Buttammo giù la sigla de L’orecchio e siccome in quel periodo frequentavamo molto Enzo Jannacci gli abbiamo dato il foglietto con le parole chiedendogli, molto umilmente, se ce la musicava. Lui la prese senza darci nessuna speranza devo dire la verità, però dopo due giorni ci chiamò, noi andammo a casa sua e lui al pianoforte ci fece sentire Ci vuole orecchio dicendoci “Però io questa per la radio non ve la do, questa ci faccio un disco“. Questa è la storia vera di Ci vuole orecchio che riguarda Jannacci, che riguarda Radio Popolare, c’è un pezzo importantissimo della nostra storia dentro questo titolo.

Il linguaggio dei tuoi personaggi come lo hai creato? Ti è venuto naturale? Ti lasci trasportare come Stefansson che a un certo punto si fa sorprendere dalla scrittura che va da sola, inizialmente pensa di andare in una direzione poi la scrittura lo porta da un’altra parte, oppure ti correggi molte volte?

Credo che qui a Milano ci sia una scuola diciamo così. Una scuola letteraria però in senso lato. Partiamo da Umberto Simonetta, Beppe Viola, Cochi e Renato, Enzo Jannacci e poi Paolo Rossi, Gino e Michele, o per guardare gli scrittori di oggi Alessandro Robecchi, leggendo una pagina si capisce che hanno un imprinting in comune. Per questo mi viene da pensare che a Milano ci sia una scuola artistica che nessuno ha mai codificato o alla quale ha dato eccessiva importanza, però esiste. Noi abbiamo uno stile che non è legato al dialetto ma è legato all’uso delle parole, alle invenzioni, al non-sense, quindi credo che questa sia la caratteristica letteraria della mia scrittura che non è originale ma è il proseguimento di un filone artistico letterario che a Milano esiste e al quale non viene dato eccessivo rilievo perché non è paragonabile a nessun’altra scuola italiana. Se io penso un pezzo di Cochi e Renato degli anni 60, quello è un pezzo di una modernità incredibile e sono passati 50-60 anni e non ci rendiamo conto di quanto a Milano sia stata fatta ricerca in campo artistico. Dobbiamo essere molto orgogliosi di questo e rivalutarlo perché nessuno lo sottolinea ma è molto importante.

Qui trovi il podcast di Cult del 11 Aprile con l’intervista completa.

  • Autore articolo
    Ira Rubini
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