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I nuovi progetti del jazzista dell’anno

Già proclamato nove volte, fin dall’82, “musicista italiano dell’anno” dal Top Jazz di Musica Jazz, Franco D’Andrea ha di nuovo ottenuto (per il terzo anno consecutivo) questo riconoscimento dalla consultazione della critica italiana specializzata promossa dal mensile: nel Top Jazz 2015 il pianista si è imposto con quasi il doppio dei punti rispetto al primo degli “inseguitori”, il sassofonista Roberto Ottaviano. D’Andrea ha inoltre conquistato il terzo posto nella categoria “disco italiano dell’anno” con Three concerts. Live at the Auditorium Parco della Musica, e con il suo sestetto il quinto posto nella categoria “formazione italiana dell’anno”.

D’Andrea riceverà il premio lunedì 8 febbraio al Teatro Leonardo di Milano nel corso della serata organizzata da Musica Jazz per festeggiare i vincitori del Top Jazz.

E’ annunciata intanto per quest’anno l’uscita di ben tre nuovi album di D’Andrea, pure pubblicati da Parco della Musica Records. Si tratta di tre trii: Electric Tree, dall’organico inedito nella discografia di D’Andrea, con Andrea Ayassot, sax, e l’irrituale presenza di un dj, DJ Rocca; Piano Trio, con Aldo Mella, contrabbasso, e Zeno De Rossi, batteria; e Traditions Today, con Mauro Ottolini, trombone, e Daniele D’Agaro, clarinetto.

E annunciati anche diversi concerti per i prossimi mesi. Il 30 gennaio D’Andrea parteciperà a Milano alla serata che ricorderà Renato Sellani. Poi con Ottolini e D’Agaro sarà il 4 marzo allo spagnolo Terrassa Jazz Festival (ospite Han Bennink), il 5 a Sesto Fiorentino, il 17 a Bergamo Jazz (di nuovo con ospite Bennink), il 26 al Bimhuis di Amsterdam (con Bennink), il 26 aprile ad Ascoli Piceno, il 6 luglio in Val di Fiemme per Suoni delle Dolomiti (con Bennink), e il 6 agosto in Svezia (assieme al fotografo Pino Ninfa). Inoltre il 24 giugno D’Andrea di esibirà a Roma con il Piano Trio, e il 15 luglio nella sua città natale, Merano, con il suo sestetto e con il progetto Electric Tree.

Qui sotto vi riproponiamo la recente conversazione con D’Andrea ospite di Jazz Anthology.

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“Non ho tenuto i tre concerti pensando alla registrazione: la mia preoccupazione era il pubblico che avevo davanti, e non quello che avrebbe potuto venire fuori su disco. Dovevano essere tre concerti veri, con né più né meno quello che io faccio in un concerto. E non abbiamo fatto montaggi: i tre concerti sono riportati esattamente come si sono svolti”.

Con nella sua discografia anche un magnifico piano solo Live at Radio Popolare, registrato nel 2005 in diretta radiofonica nel nostro Auditorium Demetrio Stratos, Franco D’Andrea, nato a Merano nel 1941, milanese di adozione, a Radio Popolare è di casa. Ma non gli era ancora capitato di essere ospite di due nostre trasmissioni in successione: la sera di lunedì 30 novembre Franco D’Andrea è stato prima a Jazz Anthology per parlare del box di tre Cd Three concerts. Live at the Auditorium Parco della Musica, pubblicato in settembre da Parco della Musica Records, poi a From Genesis to Revelation, per conversare con Renato Scuffietti e Franco Cibei della Antologia di Perigeo, cofanetto di otto Cd pubblicato un anno fa da Sony.

Three concerts fotografa D’andrea in tre concerti registrati all’Auditorium di Roma in gennaio, marzo e maggio 2014: nell’ordine uno in trio con Dave Douglas, tromba, e Han Bennink, rullante; uno in sestetto con Andrea Ayassot, sax alto e soprano, Daniele D’Agaro, clarinetto, Mauro Ottolini, trombone, Aldo Mella, contrabbasso, Zeno De Rossi, batteria; e infine uno in solo.

“La cosa fondamentale per me era che il live fosse fosse un vero live”, ci ha raccontato a proposito dei Three concerts D’Andrea a Jazz Anthology, “L’Auditorium mi ha dato ‘carta bianca’ per tre appuntamenti, e per me la priorità di questa ‘carta bianca’ era proprio il pubblico che avevo davanti in questi concerti. D’altronde mi dicevo che alla peggio si sarebbe potuto sempre fare una antologia dei tre concerti, per esempio in un Cd singolo. Però Roberto Catucci, il produttore di Parco della Musica, era fiducioso che sarebbero venuti fuori tutti e tre. I concerti si sono tenuti in sale diverse, ma ormai avevo molta familiarità con gli ambienti e con i pianoforti, perché lì all’Auditorium avevo già fatto con il sestetto il Cd doppio Monk and the Time Machine. Quindi nell’insieme ero abbastanza tranquillo”.

Il trio con Douglas e Bennink era assolutamente inedito ed è non usuale…

Ho una propensione anche per gruppi atipici. Ho avuto un trio con Fabrizio Bosso alla tromba e Gianluca Petrella al trombone, e ne ho uno con Mauro Ottolini al trombone e con Daniele D’Agaro al clarinetto, che è stato una evoluzione del precedente, e che obiettivamente è un trio strano, perché un clarinetto, un trombone e un pianoforte non è che si diano così facilmente: ma ho pensato che il clarinetto avrebbe potuto essere interessante al posto della tromba, per la sua differenza, per il timbro particolare, e anche per il richiamo netto alla tradizione, perché con questo trio parto dai suoni della tradizione, la più lontana, stiamo parlando degli anni venti, degli anni trenta, l’Ellington ruspante, quello del Cotton Club, per intenderci. L’idea di fare qualcosa con Douglas e Bennink era maturata nel corso di un cinque anni: generalmente Dave era qualche volta ospite del mio quartetto, qualche volta invece Han era ospite del trio.

Douglas e Bennink erano stati coinvolti in una precedente “carta bianca” che ti aveva dato Mito a Torino, poi replicata a Milano…

I concerti di Torino e Milano col sestetto e loro due come ospiti sono sono stati enormemente utili per approfondire questo pensiero. Mi è servito vederli suonare tutti e due con me: da principio per la verità non era proprio un gran vedere, nel senso che in un certo senso si ignoravano. Per la verità avevano anche fatto un disco insieme, però non è che fosse riuscito in maniera così persuasiva: i due stavano comunque da parti diverse. Ma mi ero fatto l’idea che col tempo, se ci fossi stato io nel mezzo a mediare, potessero essere complementari, nel senso che ciascuno aveva qualcosa che l’altro non aveva. Del resto ho sempre amato avere dei musicisti in qualche maniera diversi, che nella loro combinazione – Ellington insegna – possono produrre un risultato eccezionale.

Han da una parte con questa energia incredibile, anche spropositata, esuberante, e dall’altra Dave pensoso, però formidabile trombettista, capace di tirare fuori anche l’energia, all’occorrenza: e quando si è trovato davanti Han ha capito benissimo che la doveva tirare fuori proprio tutta. Io in mezzo facevo un po’ da intermediario, come se stessero dialogando fra di loro e io ogni tanto interloquissi, dando un po’ di spunti su dove portare la conversazione. In fin dei conti sono il regista non tanto occulto della situazione, e anche quando suono due note o non suono per niente in qualche maniera so dove vorrei che andassimo. Poi non c’è un arrangiamento, perché nella realtà la cosa fondamentale era questa: che noi avevamo una frequentazione ormai, da tempo, e questo per me è fondamentale, perché non si possono creare delle situazioni artificiali mettendo insieme il tale col talaltro, pensando che ne uscirà una cosa geniale. Secondo me deve esserci sempre una storia, dietro, sempre.

Impressiona la tua capacità di inanellare in maniera estemporanea dei brani: in una delle tracce del solo, ce ne sono ben sei diversi in una sequenza di 16 minuti.

In solo lo faccio tantissimo, ma anche con i gruppi, in maniera del tutto spontanea. Ormai ci conosciamo molto bene, sappiamo che non dobbiamo essere pressati da niente, e creiamo una transizione lì per lì. In linea di massima la forma del concerto nasce sul palco. Per esempio nell’introduzione di piano all’inizio del concerto del sestetto non sapevo dove sarei andato, e fino ad un certo punto la mia introduzione non portava specificamente da nessuna parte, poi ad un certo punto, chissà perché, chissà come, ho sentito di dover andare su Coming on the Hudson.

Se si considera appunto che questi Cd non sono una selezione di brani, ma fotografano integralmente dei concerti reali, la riuscita di questo concatenarsi ed evolvere spontaneamente della musica appare straordinaria.

Questo avviene semplicemente perché sono molto abituato a questo procedimento: da decenni, da quando faccio piano solo. La cosa nuova è stata, da una decina d’anni a questa parte, trasferire questa modo di operare anche nei gruppi, perfino in quelli abbastanza grandi come il sestetto. Alla fine è la stessa identica cosa, che, oltre che evidentemente un repertorio, ha un solo presupposto: che ci si conosca molto bene, dal punto di vista umano, musicale, tutto, e a quel punto nasce la fiducia, e quindi sali sul palco senza sapere cosa succederà, ma sappiamo che qualcosa succederà, abbiamo una fede incrollabile in tutto questo. Ed è divertente non sapere che cosa succederà, molto divertente: preferisco che le cose non siano arrangiate, scritte, fatali, detesto sapere in anticipo che le cose andranno in una certa maniera, mi piace molto che ci sia qualche imprevisto.

Ma l’improvvisazione deve essere una scienza esatta, o quasi: le carte devono essere lì, devo averle squadernate, poi me le gioco di volta in volta. Per farlo bisogna acquisire progressivamente la capacità di creare una forma lì per lì, cioè raccontare una storia con gli episodi che hai in mano, e una storia sempre diversa, perché gli episodi possono combinarsi in maniera inconsueta. Ma la storia deve reggere: e quindi devi avere l’istinto, e fin dagli anni ottanta nel piano solo mi sono abituato ad essere molto molto reattivo rispetto alle situazioni che mi venivano in testa, e a metterle in ordine in qualche maniera. Da dieci anni anche i miei gruppi lavorano così, ognuno è in grado di proporre un pezzo nel momento giusto, e quindi non devo necessariamente essere io a indicare da che parte andare.

In effetti anche nel lavoro del sestetto, non si tratta tanto di “esecuzioni” di brani quanto di un rapporto amoroso con dei brani che servono anche come spunto, come pretesto per un’improvvisazione libera.

È assolutamente così, a volte si finisce in un’improvvisazione del tutto libera, che va chissà dove, però il brano ha stimolato questa operazione, è stato come la levatrice.

Sei fortemente legato alla stagione del jazz classico, “arcaico”, delle origini: una delle cose più straordinarie dei tuoi gruppi è l’equilibrio fra una dimensione molto “antica” del jazz e una modalità che è estremamente contemporanea.

Io credo che tutto sommato il jazz tradizionale sia finito troppo presto, con l’emergere delle big band già alla fine degli anni venti. Il jazz classico, il jazz tradizionale, era una cosa formidabile, col contrappunto improvvisato fra gli strumenti della front line, una cosa di una bellezza per me incomparabile. Mi è rimasta sempre la nostalgia, di questo suono. Attenzione: questo suono, questo colore intenso, il che non vuol dire fare le stesse cose. Mi sono detto: ma perché è finita così presto questa cosa? E ho pensato che valeva la pena di riprendere qualcosa: non in termini di revival, non mi interessa quel discorso, ovviamente, ma quel colore sì, mi interessa tanto, come il colore del primo Ellington. Prezioso, estremo, a suo modo, se pensi ad Ellington nel ’40, già più “per bene”: ma l’Ellington degli anni venti è selvaggio, è fantastico.

C’è molto Monk nel repertorio.

La risposta è quella che dava Steve Lacy quando gli chiedevano: ma perché lei quando non suona brani suoi suona brani di Monk? “E’ semplice: perché Monk è inesauribile”.

Negli ultimi anni hai avuto molte opportunità e molte soddisfazioni.

Sono contentissimo di questi ultimi anni: mi sono concentrato molto sulla mia musica, sono riuscito a realizzare molte cose importanti, e ho incontrato persone che mi hanno assecondato, è stato bello: i musicisti dell’etichetta El Gallo Rojo, giovani straordinari, con una visione, con cui ho avuto piena libertà nel realizzare degli album, e adesso Roberto Catucci e l’Auditorium.

Sei stato proclamato musicista italiano dell’anno per il Top Jazz 2013 e 2014 del mensile Musica Jazz: quest’anno ?

Non poniamo limiti alla provvidenza…

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  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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