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Le identità fluide di Prince

Miles Davis ebbe a dire che Prince era quattro cose assieme: James Brown più Marvin Gaye più Jimi Hendrix più Charlie Chaplin (un’altra volta, riferendosi al Prince pianista, ne citò una quinta, Duke Ellington): un firmamento di riferimenti che basta a riassumere la straordinaria statura musicale di Prince, il suo multiforme talento di compositore, vocalist e polistrumentista, la sua prorompente personalità, il suo eccezionale impatto live, con sul palcoscenico una notevolissima vena da “attore” (centratissima quell’evocazione davisiana di Chaplin). Memorabili album come Purple Rain, Sign o’ The Times, Lovesexy, Batman, indimenticabili tanti suoi concerti, come una raffica di magiche esibizioni milanesi del luglio 1988: pochi protagonisti della musica degli ultimi decenni sono stati capaci di emozionare quanto lo è stato Prince, in particolare negli anni Ottanta.

Ci sarà tempo per un bilancio più in dettaglio della sua musica e della sua carriera. Ma in questo momento è forse il caso di provare a cogliere quale è stata la sua importanza di fondo. Al di là delle sue doti musicali e artistiche da fuoriclasse, se Prince ha davvero, come pochi altri in questi ultimi decenni, fatto epoca, il suo segreto va cercato nell’avere dato genialmente espressione ad un cruciale cambiamento di fase sul piano culturale e dell’identità, in questo nel solco in particolare di uno dei riferimenti avanzati da Miles Davis, e cioè Jimi Hendrix: Prince è stato uno dei più grandi eredi di Hendrix, forse il più grande, proprio perché ne è stato erede non solo sul piano di alcuni tratti della sua musica o del suo stile chitarristico.

Rispecchiando in musica la sua fisionomia meticcia – nera, mulatta, pellerossa – Hendrix entra in scena quando la fase dell’affermazione dell’orgoglio identitario nero, che anima le lotte degli afroamericani degli anni Sessanta, non è ancora consumata fino in fondo: ma, in ogni caso, è ormai data, e con un folgorante slancio Hendrix può superarla in avanti, in una nuova, inedita, sintesi. Profondamente nera, l’estetica di Hendrix ha però un rapporto non fondamentalista, non etnocentrico, innovativo, con l’identità. Anche Prince sa che esistono delle appartenenze, e conosce benissimo quella nera, che è una delle sue: ma all’altezza di Prince l’identità come semplice proiezione della tradizione, delle radici, è anacronistica.

Prince, che mette in discussione persino le identità di genere, mescolando – senza essere figlio dell’ambiguità più esteriore del glam rock – identità maschile e femminile, fa saltare le identità etniche. In grado di maneggiare con altrettanta disinvoltura un’influenza beatlesiana quanto quelle della black music, Prince ci dice che l’identità non è data una volta per tutte, che è un work in progress, che si costruisce e si ridefinisce strada facendo, e ognuno deve potersela assemblare a modo proprio, senza regole prestabilite, senza obblighi.

Figlio dei mass media, della radio, della tv, della circolazione planetaria dei dischi, Prince ha fatto tesoro di un aspetto positivo di questi mezzi: il loro ruolo di grande frullatore di identità. Se certamente questa nuova dimensione mediatica comporta un rischio di omologazione delle identità, d’altro canto offre anche risorse per metterle in discussione in quello che hanno di fisso, di pietrificato, di non dialettico. Del resto il sogno della psichedelia, della controcultura degli anni Sessanta, era stato quello della non condizionata reinvenzione della personalità di ciascuno, dell’identità, appunto. Con il suo consapevole ma libero approccio all’identità sul piano etnico e di genere, sfuggendo agli stereotipi nella sua musica e nel suo modo di porsi come personaggio, Prince ha rappresentato negli anni Ottanta un nuovo stadio di rimescolamento di carte che preludeva già all’America che poi eleggerà il primo presidente nero della storia degli Stati Uniti, presentatosi infatti agli americani non come esponente di una rivendicazione etnica ma come espressione di una nuova sintesi americana.

Che poi al progresso sul piano del simbolico non abbia corrisposto il superamento di dinamiche razziali che continuano pesantemente a contare, questo lo sappiamo, e lo sapeva benissimo anche Prince, che nel suo ultimo album, HITnRUN Phase Two, aveva inserito il suo brano Baltimore, dedicato a Freddy Gray, uno dei tanti neri vittime della violenza della polizia, e al movimento Black Lives Matter.

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  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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