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Quei quattro ragazzini diventati i Beatles

Che cosa si può dire dei Beatles che non sia già stato detto? Che cosa si può ascoltare o vedere che non si sia già ascoltato o visto? Niente, assolutamente niente. Eppure Ron Howard, regista da premi Oscar e da grande pubblico, che ha diretto film memorabili come Apollo 13, Frost/Nixon, Rush, Cinderella Man, A beautiful mind, ma anche Cocoon e Una sirena a Manhattan, volto amatissimo della serie tv Happy Days nei panni di Ricky Cunningham, è riuscito a trovare una chiave appassionante e originale per riportare alla ribalta il successo dei Fab Four.

Il documentario The Beatles – Eight days a week, al cinema solo dal 15 al 21 settembre, ripercorre le storie di John, Paul, George e Ringo dagli inizi di fine anni ’50, all’ultima esibizione sul tetto dello studio della Apple Records il 30 gennaio del 1969. In mezzo, i loro tour incredibili negli Stati Uniti e nel resto del mondo, compreso il passaggio al Vigorelli di Milano nel 1965. Immagini di repertorio, molte rarissime fornite anche dai fan dell’epoca che avevano girato in Super 8. A corredare le immagini, prevalentemente in bianco e nero, tranne le parti dedicate al back stage del film Help! di Richard Lester e quelle relative alla realizzazione e promozione dell’album St Pepper’s Lonely Hearts Club Band, le interviste con curiosissimi e commoventi aneddoti a: Elvis Costello, le attrici Whoopy Goldberg e Sigourney Weaver, Richard Lester, Larry Kane (il giornalista che seguì il tour negli USA), più Paul Mc Cartney, Ringo Starr e d’archivio John Lennon e George Harrison. Inoltre, il documentario uscirà abbinato al filmato del mitico concerto allo Shea Stadium di New York, del 15 agosto del 1965.

La forza e l’originalità di questo documentario, oltre a tavolgere con le esibizioni dal vivo che in pochi hanno avuto la fortuna di vedere, sta nel mostrare quattro ragazzini ancora molto giovani, fiondati nel mondo del successo. La loro voglia di vivere, di scherzare, di spiazzare in modo adolescienziale si mescola con la creazione delle canzoni più famose della musica e con gli show davanti a migliaia di fans scatenati, con le conferenze stampa e le interviste in tv.

Per chi li ha visti sempre come più grandi, meno provocatori dei Rolling Stones e un po’ primi della classe, di fronte alle immagini raccolte da Ron Howard c’è da ricredersi. Sbeffeggiano con garbo il pubblico e i giornalisti trasmettendo allegria. Lo scarto è dovuto all’epoca narrata, in cui prevaleva il cameratismo tra i membri della band, come a proteggersi vicendevolmente da quell’avventura più grande di loro. Oltre allo stupore, senza spiegazioni logiche di fronte al fanatismo del pubblico.

“Perchè ai vostri concerti gridano tutti?”, chiede un giornalista ai Beatles. “Non lo sappiamo”. Rispondono i quattro ridacchiando.
Le immagini con le reazioni del pubblico sono assurde e divertenti. Primi piani su ragazzine morigerate, che si strappano letteralmente i capelli, si asciugano le lacrime facendosi passare i fazzoletti da signore più adulte in stile Marion Cunningham. E’ l’America degli anni ’60, conservatrice e cattolica sorpresa di fronte alla spinta di libertà lanciata dai quattro ragazzini di Liverpool.

Quell’America conservatrice che ancora in alcuni stadi divideva il pubblico tra neri e bianchi. Quando i Beatles fecero tappa a Jacksonville in Florida nel’64, si rifiutarono di suonare in qualsiasi luogo che prevedesse la segregazione razziale. Una presa di posizione che obbligò il Gator Bowl a rivedere la sua politica dei posti a sedere. E una clausola che fu inserita per loro volere nei contratti con chi voleva ospitarli dal vivo.

Le loro esibizioni avevano un altissimo potere contrattuale, come fece notare John Lennon con una frase di cui poi dovette scusarsi davanti ai media: “La musica dei Beatles, sui giovani, ha più presa di Gesù”. La loro popolarità andava di pari passo con i cambiamenti sociologici dell’epoca. “La generazione dei giovani del dopoguerra rifiutava le costrizioni imposte dai genitori e la passione, la creatività e l’inesauribile energia della band erano ciò di cui la gente aveva bisogno”, precisa Nigel Sinclair, tra i produttori di questo documentario.

Il senso del film lo spiega bene Ron Howard, raccontando un suo ricordo personale: “Non li vidi mai dal vivo, li scoprii per la prima volta nel febbraio del 1964 all’Ed Sullivan Show, come gran parte dell’America. Il 1° marzo avrei compiuto 10 anni e chiesi ai miei genitori di comprarmi la parrucca e gli stivaletti alla Beatles. Poi, circa tre anni dopo, una mia insegnante di origini inglesi iniziò a usare le canzoni dei Beatles per insegnare alla classe a comprendere la poesia. E’ stata la prima persona che conoscevo a elevarli al livello dei classici”.

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    Barbara Sorrentini
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