Approfondimenti

La negra

Sono Daisy. Anzi sono una sua amica. E l’amica di Daisy è nera, proprio come me. Africana nera dell’Africa. Bella, sicuramente. Perché sapete, tutte le nere o sono belle, o sono terribilmente brutte: le aspettative sullo stereotipo femminile africano si muovono frenetiche su questi due fronti.

Credo – ma non ne sono certa – che questa mia storia cominci di fronte alla Cumana, alla stazione di Montesanto. La storia comincia quando un uomo stempiato, grasso e sudato ferma me e una mia amica e finge di conoscerci, di sapere chi siamo e dove andiamo.

Con lui ci sono altri suoi amici. Se ne stanno in disparte, ridacchiano maliziosi mentre il grassone si fa bello e forte davanti ai compari, invade il nostro spazio, si mette in bella mostra tra noi e il resto del branco. Viscido.

È incredibile l’arroganza che dimostra nel rivolgersi a noi. La sicurezza dei suoi movimenti, nonostante il suo parlare biascicante, mi colpisce: dimostra per l’ennesima volta che questi uomini sono sicuri di sé quando devono approcciare, o meglio molestare, le donne straniere.

Meglio quando sono nere. Perché, come si dice: andare a nere è il massimo. Se qualcuno di voi non lo sapesse, andare a nere è un modo di dire che indica l’andare a prostitute, il fare sesso a pagamento. Immaginavo che ci fossero un mucchio di questioni insolute attorno alle mie origini e al mio genere. Sentivo di non essere rispettata in quanto forma di vita senziente ma – mai e poi mai – avrei immaginato che i miei tratti somatici, la mia apparenza, indicassero una qualche disponibilità sessuale.

Forse, ora che ci penso, non è che non l’abbia mai immaginato. Quel pensiero era disteso nel mio inconscio, come un tappetino impolverato che appena smosso fa un gran bel casino di polveri e schifezze. Quando si muoveva, quando lo spostavo appena o quando mi capitava di inciamparci, ne saliva un gran senso di colpa per il fatto di non riuscire ad evitare di essere un oggetto sessuale, un succoso filetto di fica negra che ogni uomo bianco avrebbe tagliato e assaporato dolcemente.

Per il maschio italiano medio sono la pantera nera, la leonessa della giungla, Naomi Campbell. O una sexy gattona nera. C’è un vero e proprio bestiario medioevale a disposizione dell’immaginario sessuale maschile, fatto di animali inesistenti carichi di incontenibile erotismo. Ma ditemi, avete mai visto una leonessa con la criniera? Cosa non si farebbe per piegare ciò che immaginiamo a ciò che esiste veramente.

Noi nere siamo tutte gatte affamate di cazzo, selvagge e incontenibili, brave a letto e instancabili. È facile pensarla in questo modo, escludere la soggettività e tenere alla larga il pensiero che ci possa essere qualcosa di là dalla “razza”. Pensare alle donne è già difficile di per sé, ma che succede quando la donna in questione è nera, e magari nata o cresciuta in Italia?

Succede che diventiamo una massa di femmine senza storia, che cercano di muoversi nel buio di una savana che Toni Morrison diceva risiedesse solo ed esclusivamente nell’inconscio dell’uomo bianco.

C’è voluto diverso tempo per ammettere che il problema non ero io ma il resto di questo porco mondo, e che non avrei dovuto cambiare nulla di me, e peraltro mai avrei potuto farlo. Uscire da quella giungla di pregiudizi che rende impossibile un contatto sano ed equilibrato con il prossimo mi ha liberata almeno un po’, decolonizzando lo sguardo che avevo su me stessa.

Ho dovuto tirare schiaffi, spintonare centinaia di viscidi stronzi, dire una serie infinita di “no” per arrivare a questo grado di consapevolezza. Quanto sia costato, ancora non ho il coraggio di raccontarvelo. Posso solo dirvi che ho dovuto lottare con la mia voglia di gettare la spugna e ritornare nel “bush”, la foresta entro cui la violenza e il razzismo di istituzioni e gente comune mi stava spingendo.

Se ci fossi riuscita, se avessi resistito abbastanza, il premio sarebbe stato il migliore di tutti. Il diritto alla rabbia, la tolleranza zero verso ogni forma di violenza e sopruso, insomma: il massimo che un essere umano possa desiderare per sé e per il proprio prossimo.

Se avessi ceduto alle pressioni che questa società di bianchi applica sui neri, avrei dovuto stirarmi i capelli fino alla morte, schiarirmi la pelle fino alla morte, essere gentile e accondiscendente fino alla morte. Avrei dovuto pensare a come non uscire dal ghetto, anzi a restarci e magari morirci, se ne avevo la possibilità.

Guarda attentamente. La vedi? Io sì, la vedo chiara la trincea di guerra nella quale gettano milioni di migranti, e ogni giorno si scava a mani nude sempre più a fondo nella disumanità. Le loro vite valgono meno della tua, che forse mi stai leggendo e sei nato in Europa, diciamo in un luogo migliore di quello in cui sono cresciuta io.

Ti chiederai… starà mica esagerando la ragazza con tutta ’sta storia del razzismo e dell’essere nere qualche chilometro più in la, fuori dell’Africa? Me lo sono chiesta anch’io, mentre rileggevo le ultime righe. Forse sto esagerando, forse lo schifo che percepisco non copre distanze così imbarazzanti da qui fino alla luna. E se dalla luna fino a qui, ricalcolassi proprio quella distanza necessaria a fare dello schifo un fatto che riguarda tutti, indistintamente? Cosa accadrebbe?

Cambiamo prospettiva: diciamo che non si tratta solo di una questione di razza, o peggio di quelle puttanate che i teorici della xenofobia chiamano “scontro di boxe all’ultimo sangue tra civiltà”. Mettiamo che ci sia un altro meccanismo, più subdolo, censurato, a dare man forte al razzismo.

Non tutti gli stranieri sono discriminati. Ve ne sono alcuni di serie A, ed altri di serie B. La differenza sta nella ricchezza, immaginata o effettiva. La Francia è il paese della Rivoluzione francese, la Germania fa salsicce e macchine veloci, l’Italia è il Belpaese, la Cina produce roba contraffatta e l’Africa morti di fame e Hiv. Ogni paese ha il proprio primato immaginario. Quelli cosiddetti “del terzo mondo” hanno il primato della povertà.

Allora mi viene da pensare, sarà la povertà il problema? Si è neri perché poveri o si è poveri perché neri? Vuoi vedere che se nascevo uomo, ricco e americano le cose mi giravano meglio? La differenza tra l’essere povero e l’essere ricco fa – di fatto – la differenza. Ed è stata per anni anche la mia, di differenza.

Sarebbe da folli sostenere l’universalità delle proprie esperienze personali. Io non ho voglia di farlo, me ne frego di convincervi della bontà delle mie parole. Potrei impegnarmi, ma farei la fine di certi intellettuali di sinistra che scrivono perché non sono monchi ed hanno il culo al posto del cervello, con risultati che per pigrizia non sto qui a commentare.

Non sono pazza, almeno non tanto da dire che le storie che vi racconto debbano per forza essere le storie degli Africani in Italia. I soldi sono tutto, in una società di classe basata sul mantenimento di questo scarto sociale. E il resto si unisce allegramente al festival della barbarie.

Fu principalmente per la mia condizione reddituale che non fui in grado di prendere la cittadinanza. Il mio essere femmina mi ha fatto guadagnare giri gratuiti e infiniti sulla giostra delle molestie sessuali. Il fatto di essere nera ha aumentato del 100% le possibilità di vivere al peggio la mia vita da sacchetto di plastica extracomunitario.

All’inizio vi dissi che non ero certa che la mia storia cominciasse così. Circa un anno fa subii un’aggressione. Eravamo in due, e il gestore di un bar nei pressi di Fuorigrotta ci gettò giù dalle sedie. C’eravamo rifiutate di alzarci dopo alcuni insulti sessisti e razzisti. La mia amica fu coraggiosa, molto più di me. Li affrontò beccandosi un piatto di alluminio in faccia. Tornammo a casa distrutte, dopo che la polizia ferroviaria che ci aveva fatto domande sui documenti prendendo a martellate la nostra dignità.

A pensarci adesso mi stupisco di quanto la cosa abbia sostato poco dentro di me. La mia pelle aveva scatenato reazioni, aveva creato la scena perfetta per l’abuso. E il tutto doveva consumarsi silenziosamente nelle loro foreste interiori.

Ma io non fui pantera, mi rifiutai di essere Naomi Campbell, o l’amica di Daisy o Daisy stessa. Io sono. E non esisto solo nel rovo di pregiudizi che purtroppo sta avvelenando l’anima di questo paese sciancato.

La mia pelle può dare indicazioni approssimative sulla mia presunta provenienza, ma dice poco o niente su dove andrò domani. Se sarà possibile imbroglierà e mentirà. E si prenderà gioco di voi tutti. Io vi fotterò, perché questa pelle tace sulle mie azioni, così come tace sulla mia storia. In verità vi dico: quando il nero sarà silenzio, la libertà verrà.

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Questo articolo è apparso sul blog Kasava Call e lo riproduciamo con il permesso dell’autrice, Djarah Akan. La foto è di Roberto Russo (in arte Ninguèm Viù) 

Djarah Akan e Roberto Russo crescono a Castel Volturno, cittadina che si affaccia sul mare vicino a Napoli. Sono entrambi ventenni: Djarah ha la passione per la scrittura, Roberto quella per la fotografia. Sono stanchi di articoli fuorvianti che raccontano solo la “malavita” di un territorio ferito dalla camorra, dalla disoccupazione e dall’abusivismo. Così, un anno fa, decidono di aprire un blog che per raccontare in modo differente le vite diverse e contraddittorie di Castel Volturno. Gli articoli descrivono stralci di vita quotidiana con cui gli autori vogliono restituire un po’ di dignità al posto che abitano e vivono. Il blog prende il nome dalla parola Kasava, che significa “casa” ma anche Castel Volturno, pronunciato alla maniera dei cittadini africani che da molto tempo abitano la zona. “Kasava Call” dunque, Kasava chiama. L’intento è lanciare una chiamata a chi è disposto a scoprire la vita che pulsa e resiste, tra il mare e la terra di Castel Volturno (Michela Sechi)

DJarah Akan, autrice del blog Kasava Call
DJarah Akan, autrice del blog Kasava Call
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