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Diario Libico, il reportage di Radio Popolare dalla Libia

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Diario Libico è il nuovo reportage a puntate di Radio Popolare dal nostro inviato in Libia Emanuele Valenti. In questo diario cercheremo di rispondere a una domanda: che impatto avranno le ripetute violazioni dei diritti umani – dalla caduta di Gheddafi a oggi – sul futuro della Libia? In che modo violenze e soprusi di questi dieci anni segneranno la Libia di domani?

Diario Libico. Capitolo 1: Ripartire da zero ()

In questo momento si parla molto del futuro politico di questo paese. Da pochi mesi c’è un governo di unità nazionale e sulla carta a dicembre ci saranno le elezioni. Da Tripoli sono anche passati alcuni leader europei – compreso il nostro Mario Draghi – ma dietro a questo ottimismo generalizzato c’è una situazione molto complessa.

Un primo quadro ce lo dà Adem Ali, del Consiglio Nazionale per le libertà e i diritti umani, creato dal parlamento libico. Lo incontriamo sulla strada tra Tripoli e Misurata, mentre viaggia in questa zona del paese per incontrare le associazioni che lavorano proprio sui diritti umani.

Ci dice sostanzialmente una cosa: “Il problema non è la mancanza di un sistema giudiziario, che formalmente c’è, il problema è farlo funzionare, far rispettare la legge, in un paese dove grazie alle armi i criminali sono più potenti di chi dovrebbe rappresentare lo stato”. Ecco perché, tra le tante altre cose, vengono impunemente rapite le persone scomode. Ed ecco perché gli stessi agenti torturano e uccidono ancora i detenuti in carcere.

E attenzione, Adem Ali – che si definisce un volontario al servizio del suo paese – ci spiega che tutto questo non succede solo nell’est, la zona di Bengasi, quella del generale Hafter, ancora separata dal resto del paese. Gli operatori di giustizia hanno paura a condannare i criminali anche qui, vicino a Tripoli, dove a volte ricevono minacce di morte, anche per le loro famiglie.

Insomma, la Libia è un paese da ricostruire da zero, con una nuova cultura della giustizia al posto di quella della violenza e dell’impunità. Questa è la vera sfida dei prossimi mesi e dei prossimi anni.
Il processo politico di queste settimane, da solo, non sarà sufficiente.
E in questo passaggio delicato i libici avranno bisogno di un supporto esterno. Ce lo ha spiegato Faisal Al-Sharif, un avvocato di Misurata che si occupa di diritti umani. “Con altri avvocati abbiamo raccolto diverse prove sulle ripetute violazioni dei diritti umani e le abbiamo mandate alla Corte Penale Internazionale. Ora ci aspettiamo qualcosa dalla giustizia internazionale”.

In questi primi giorni di viaggio diverse persone ci hanno ricordato come interessi e interventi esterni abbiano alimentato il conflitto, la guerra, la crisi. Ora molti libici si aspettano un intervento esterno diverso, che possa aiutare il loro paese a voltare pagina sul serio.

Diario Libico. Capitolo 2: L’eredità della guerra ()

In Libia ci sono ancora centinaia di migliaia di sfollati. Alcune stime dicono 600-700 mila, circa il 10% della popolazione. Avere numeri precisi è praticamente impossibile, perché molte persone e molte famiglie si sono spostate da parenti o amici senza registrarsi con le Nazioni Unite.

In questi dieci anni di crisi il caso più importante di deportazione, una vera e propria deportazione di massa, è stato a Tawergha, nel 2011, durante la rivolta contro Gheddafi. Tutta la popolazione, 40mila persone, fu costretta alla fuga quando la città venne attaccata dalle milizie ribelli della vicina Misurata. Diversi cittadini di Tawergha combattevano per il regime. In una zona molto povera far parte dell’esercito era l’unica forma di sostentamento.

Dal 2018, quando venne raggiunto un accordo di riconciliazione tra Tawergha e Misurata, alcune famiglie sono rientrate. Secondo il municipio della città tra il 40% e il 45% della popolazione. Ma la maggior parte di loro non è potuta tornare nella sua casa. Tawergha porta ancora i segni della guerra. Ci sono interi quartieri abbandonati, con case rase al suolo o in buon parte distrutte. Camminando per le strade impolverate a poca distanza dall’inizio del deserto si ha la sensazione di muoversi in un paesaggio surreale, calati nell’assoluto silenzio.

Una scuola ospita decine di famiglie. Una signora con cinque figli ci racconta con le lacrime agli occhi che è stata usata prima da Gheddafi e poi da chi è arrivato dopo di lui. Avendo problemi di pressione e non potendo fare le scale è costretta a stare in un piccolo locale praticamente sulla strada. Qualche materasso per terra, polvere, sporcizia, niente acqua corrente. Durante il giorno il termometro arriva a 50 gradi.

Questa famiglia è tornata da pochi mesi, prima viveva in un campo profughi vicino a Tripoli, che però è stato chiuso. Nella zona occidentale della Libia ci sono ancora diverse strutture per i profughi interni.

I cittadini di Tawergha sono quasi tutti neri. Questa città venne infatti costruita per gli schiavi che arrivavano dal resto dell’Africa ai tempi dell’Impero Ottomano.

Il sindaco, Abdel Rahman Shak Shak, che firmò l’accordo del 2018, ci spiega che la riconciliazione ha riportato la normalità e che la gente sta tornando.
Camminando per strada e parlando con la gente la percezione è completamente diversa. La storia sembra un’altra. Molte persone si sentono abbandonate. Tutti stanno aspettando da tempo i fondi governativi per ricostruire le loro case, ma i fondi non arrivano.

Questa vicenda mette a nudo la distanza tra le istituzioni e la vita reale e fa suonare un campanello d’allarme. A Tawergha nessuno ci ha raccontato di volersi vendicare con Misurata, ma la vita in estrema povertà non può che creare nuovi ostacoli a un processo di pace e alimentare stati d’animo, emozioni, che in passato qui in Libia hanno prodotto scontri tra comunità, clan, tribù, fazioni, città, proprio come nel caso di Tawergha e Misurata.

Diario Libico. Capitolo 3: Scomodi ai poteri locali ()

Safi Asi Alabidi vive a Misurata, Libia occidentale, dal 2014, da quando è scappato da Bengasi. In quel periodo nell’est del paese si stava affermando il Generale Haftar, ancora oggi è uomo forte della Cirenaica, la parte orientale del paese.

“A un certo punto sono dovuto fuggire con la mia famiglia – ci racconta. Sono un imprenditore ma facevo anche attività politica, partecipando a incontri, dibattiti, comizi su libertà e democrazia. Parlavo spesso nella piazza centrale di Bengasi”.

Safi Asi Alabidi ci spiega di aver criticato più volte pubblicamente Haftar, soprattutto di aver messo in guardia la gente di Bengasi sulle reali intenzioni, a suo parere, dell’ex-generale di Gheddafi fino al 2011 in esilio negli Stati Uniti: prendere il controllo di tutto il paese e governarlo con il pugno di ferro.

Dopo minacce, pedinamenti e l’invito della sua stessa tribù, gli Abedat che non riuscivano più a proteggerlo, sette anni fa Safi Asi Alabidi è fuggito con la famiglia a Misurata. Ci dice che tornerebbe a casa anche domani, ma che al momento è impossibile.

Ci spiega anche di essere abituato a vivere in queste condizioni. Ai tempi di Gheddafi fece infatti undici anni di carcere.

La storia di Safi Asi Alabidi è comune. In pochi giorni abbiamo incontrato anche altre persone scappate da Bengasi perché oppositori di Haftar. Ma attenzione, si tratta di una dinamica che si ripete in tutto il paese. Anche nella zona occidentale, in Tripolitania, ci sono persone perseguitate, minacciate, torturate, uccise, per le loro idee, la loro attività, la loro voce, le loro denunce. Persone scomode per la loro opposizione ai poteri locali, che in Libia sono tanti.

Diario Libico. Capitolo 4: Impunità (prima parte) ()

In Libia c’è una città che più di altre tiene insieme quasi tutti i problemi che al momento rendono impossibile la soluzione di una crisi che va avanti da oltre dieci anni. La città è Tarhouna, 270mila abitanti, 90 chilometri a sud di Tripoli.

Fino a un anno fa a Tarhouna comandava la famiglia Kani, con la strategia del terrore. Un clan che di volta in volta si è alleato con le diverse fazioni della guerra libica – alla fine il Generale Haftar – sulla base dei propri interessi: comandare e controllare i traffici che passano da questa regione, compreso quello dei migranti.

“Qui non c’è stata pulizia etnica e nemmeno una guerra di religione – ci racconta il sindaco, Mohamed al-Kesher, che nel 2011 partecipò alla rivolta contro Gheddafi – qui si sono ammazzati parenti e vicini di casa, con una violenza senza precedenti”.
Per ragioni di sicurezza Mohamed al-Kesher vive a Tripoli e tutti i giorni viene a Tarhouna in macchina, cambiando spesso vettura e tragitto.

I membri della famiglia Kani sono scappati verso Bengasi la scorsa estate, quando le milizie di Haftar si sono ritirate a est. In quel momento sono venute alla luce tutte le atrocità che avevano commesso, anche se qui erano già note quasi a tutti. Fosse comuni – finora con quasi 200 cadaveri – omicidi, sparizioni, sequestri. Solo ufficialmente 3600 denunce per crimini di vario tipo. Sulla carta arrivate anche al Consiglio ONU per i Diritti Umani e alla Corte Penale Internazionale.
Mohamed al-Kesher ci spiega che la gente di Tarhouna vuole giustizia, poi ci mostra sul cellulare le immagini dei suoi parenti uccisi a sangue freddo dal clan Kani negli anni scorsi. Usciamo dal municipio e iniziamo a visitare i luoghi delle atrocità commesse a Tarhouna fino a un anno fa.

Diario Libico. Capitolo 5. Impunità (seconda parte) ()

Stiamo lasciando il municipio di Tarhouna. Il sindaco Mohamed al-Kesher ci ferma. “Ci tengo ad aggiungere una cosa – ci dice – la gente ha bisogno di giustizia, chi ha commesso quei crimini deve pagare, altrimenti temo che prevalga la voglia di vendetta”. Le denunce sulle atrocità di Tarhouna sono arrivate anche alla Corte Penale Internazionale e al Consiglio ONU per i Diritti Umani.

Alcuni luoghi della città parlano da soli.
In diverse zone della periferia ci sono delle fosse comuni.
All’interno del vecchio commissariato di polizia c’è invece la prigione usata dal clan Kani, che ha controllato Tarhouna per anni, per quelli che considerava i suoi oppositori.
Sulle porte in metallo di piccole celle le incisioni con i messaggi dei detenuti, il numero dei giorni di prigionia, alcuni disegni, anche gli indirizzi Facebook.
In locali di tre metri per due stavano fino a diciassette o diciotto persone. Per terra ci sono ancora i loro vestiti. In una cella c’è la scarpa di un bambino. A volte le persone venivano fermate per strada e portate in carcere direttamente, anche con i figli.
In un grosso stanzone venivano messi invece i migranti, fino a trecento o quattrocento alla volta.

Verso fine giornata incontriamo Fathi, che ci accompagna sulle macerie della sua casa rasa al suolo con i buldozzer perché si era ribellato alla famiglia Kani. “Siamo stanchi della guerra, ma se dovessero tornare da Bengasi non ucciderò solo loro ma anche le loro famiglie”.

Pensiamo a quello che ci aveva detto il sindaco.
Davanti ai nipoti, e con le lacrime agli occhi, Ahmed Farj Mansour ci racconta invece l’uccisione a sangue freddo dei suoi due figli: “non so ancora perché lo abbiano fatto”.
Prima di allearsi con Haftar il clan Kani controllava Tarhouna con il consenso del governo di Tripoli. Le responsabilità del disastro libico sono di tutti.

Diario Libico. Capitolo 6: L’attesa ()

Nella piazza Fashlum di Tripoli ci sono decine di migranti seduti ai bordi delle strade, sui marciapiedi, sotto gli alberi in una grossa aiuola che segna la rotonda per il traffico. Aspettano che arrivi qualcuno a offrirgli un lavoro, quasi sempre solo per la giornata. Come muratori, imbianchini, idraulici.

In Libia ci sono centinaia di migliaia di migranti.
Nei centri di detenzione gestiti dal governo di Tripoli solo poche migliaia di persone.
Gli altri sono sparsi in tutto il paese. in mano ai gruppi criminali che organizzano il viaggio fino alla costa e la traversata del Mediterraneo oppure impegnati nella ricerca di un lavoro, proprio come i tanti ragazzi africani che abbiamo incontrato in piazza Fashlum.

“Arrivo dal Biafra, in Nigeria, sono in Libia da tre anni – ci racconta un ragazzo con una tuta blu, degli scarponi, una maglietta con il cappuccio. Sono un ingegnere, ma ora faccio qualsiasi cosa pur di guadagnare dei soldi”.
Anche lui ha tentato la traversata del Mediterraneo – due volte – ed è stato respinto dalla guardia costiera. “Poco dopo il rientro a terra – ci dice – sono riuscito a scappare di prigione”.

“Sono originario della Costa d’Avorio – interviene un altro ragazzo – quando avrò un po’ più di soldi proverò ad andare in Europa, ora non me lo posso permettere”.
Intorno si forma un capannello con una decina di migranti.
Altri ci raccontano che vivono tutti in un unico appartamento, in alcuni periodi sono anche in trenta o trentacinque.
La maggior parte di questi ragazzi non ha il permesso di lavoro. In questo periodo nei centri di detenzione finiscono quasi solo i migranti respinti in mare dalla guardia costiera.

All’ultimo momento le autorità libiche non ci hanno permesso di visitare i centri di detenzione e nemmeno di uscire in mare con la guardia costiera.

Diario Libico. Capitolo 7: Un futuro migliore? ()

Nelle ultime ore del mio viaggio mi sono chiesto più volte come sarà il futuro della Libia. Toccandola con mano la sua crisi mi è sembrata ancora più profonda, complessa, senza soluzione.
Mi tornano in mente le parole di alcuni cittadini di Tarhouna – la storia della città l’abbiamo raccontata qualche giorno fa – con la loro rabbia e la loro paura nel vedere in giro i responsabili di crimini di vario genere.
La giustizia, anzi la mancanza di giustizia, è uno dei problemi più gravi di questo paese.
“Continuiamo ad archiviare, prendiamo nota – mi ha detto un magistrato di Tripoli – ma non riusciamo a far applicare la legge”.
“I criminali – mi ha spiegato invece un avvocato di Misurata – sono ancora più forti di chi dovrebbe far rispettare la legge”.

Quali soluzioni, per evitare che il circolo vizioso si ripeta all’infinito?
Secondo Mohamed e Abdullah, due cittadini libici di poco più di trent’anni che vivono in Canada e sono venuti qua solo per l’estate, la chiave è l’educazione.
“Tutti devono studiare, quando torniamo qui notiamo subito come i nostri politici o comunque chi ha in mano il potere, a livello locale e nazionale, non abbia studiato”.

Tra poche settimane Mohamed e Abdullah torneranno in Canada. La loro osservazione è più condivisibile, mettere oggi le basi per domani. Ma ci sarebbe bisogno anche di altro, per provare a chiudere fin da subito qualche ferita: iniziare a costruire uno stato con un suo solido sistema giudiziario. Opera difficilissima, ma su questo si testerà la credibilità del processo politico in corso in queste settimane.

  • Autore articolo
    Emanuele Valenti
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