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Pandemia di COVID-19. “Ripensare l’organizzazione capitalistica”: l’economista Virgillito

COVID-19 telelavoro

Quali sono le cause strutturali della diffusione planetaria del coronavirus COVID-19? Di fronte alla pandemia siamo tutti uguali o diseguali? Quale deve essere il ruolo dello Stato, nella crisi e dopo? Raffaele Liguori ne ha parlato a Memos con l’economista Maria Enrica Virgillito, ricercatrice alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. 

La conversazione comincia da una frase pronunciato il 23 marzo scorso dal segretario generale dell’Ocse Angel Gurrìa: “Sarò chiaro: le economie avanzate soffriranno. Se faranno tutto bene, la sofferenza durerà anni. In caso contrario, non si riprenderanno affatto”.

È colpita dalle parole di Angel Gurria?

Direi che ad oggi quelle parole purtroppo non mi colpiscono. Sono parole che devono portare ad un ripensamento dell’organizzazione capitalistica a livello mondiale. Dal punto di vista della gravità dei dati che vengono illustrati sono parole che invece mi colpiscono. Credo che i dati in sintesi, e in generale ciò che stiamo osservando in questi giorni, a partire dall’arrivo della pandemia in Europa, stanno mettendo in discussione non semplicemente il mercato in senso stretto, ma è l’organizzazione capitalistica della società. Mi riferisco alla divisione del lavoro e della conoscenza, al ruolo dei rapporti di potere rispetto al processo economico. Ciò diventa particolarmente evidente rispetto ad alcuni assetti fondamentali.
Il primo: la pandemia emerge da cause che sono molto profonde, le radici del disagio che si sta provando non sono circoscrivibili alla questione dei mercati alimentari di Wuhan, ma anzi la precedono largamente. E riguardano la gestione della catena alimentare degli allevamenti intensivi.
Il secondo punto, che credo sia da mettere assolutamente sotto la lente di osservazione: il ruolo dell’inquinamento ambientale nella propagazione delle polveri sottili PM10, nell’aver favorito e nell’essere culla del trasferimento delle infezioni respiratorie.
Poi c’è anche la resistenza agli antibiotici, un altro dei fattori che amplifica l’incapacità degli umani a resistere al cosiddetto salto di specie. Infine, le catene globali del valore, tutto ciò che attiene alla divisione della produzione a livello internazionale. Sono fenomeni che precedono la pandemia in senso stretto e che adesso si stanno stratificando l’uno sull’altra portando le conseguenze dall’organizzazione e dalla gestione della catena alimentare della produzione fino alle società in senso più ampio.

Quindi la pandemia mina alle radici i fondamenti dell’organizzazione dell’economia. Ci sono effetti generali che la pandemia produce e risposte da dare alla diffusione planearia del virus. In un articolo recente che lei ha scritto insieme a Giovanni Dosi, voi raccontate che a fronte di effetti differenziati della pandemia (disuguaglianze), sono necessarie risposte coordinate e universali. Quali sono gli effetti differenziati, Maria Enrica Virgillito?

Nell’articolo che abbiamo scritto, e che mi fa piacere condividere con voi, tentavamo di dare delle piccole coordinate rispetto agli effetti diseguali della pandemia. Gli effetti diseguali li ritroviamo – se passiamo dall’osservazione macroeconomica alla scala nazionale – in termini di disuguaglianze sociali e territoriali. La disuguaglianza sociale si esplica prima di tutto nell’accesso a determinati servizi e opportunità. Ad esempio, prendiamo l’accesso alla cosiddetta istruzione online. Per quanto si possa ritenere che la digitalizzazione renda tutti uguali, perchè lo strumento è unico, dobbiamo invece concludere che è falso. L’accesso ad un’istruzione eguale non può prescindere dal mezzo. Dato che il mezzo (computer portatile o accesso alla rete internet) non è diffuso in modo uniforme tra gli individui e le famiglie nella società italiana, ciò crea enormi diseguaglianze.
La prima questione è: la pandemia sta esacerbando delle condizioni di partenze di divari, di natura sociale e geografica. A questo si associano dei divari legati alle condizioni di lavoro. Non è mai stato più vero come oggi che il lavorare da casa è un privilegio che purtroppo hanno in molto pochi. Non soltanto lavorare da casa è una cosa che deve essere legata ad un accesso infrastrutturale, ma il lavoro che fai deve essere un lavoro eseguibile, fungibile attraverso la rete. Se andiamo a guardare la struttura occupazionale italiana alla data di oggi vediamo – secondo uno studio fatto di recente soltanto il 30% della forza lavoro (6,5 milioni di lavoratori italiani) possiede le caratteristiche strutturali – non in termini di educazione, ma del lavoro che svolge –  per poter fare il lavoro da casa.

Solo un terzo della forza lavoro, dunque, può lavorare da casa. Si può modificare questa situazione e in che tempi?

Ecco un dato (2018, Eurostat) sul numero di lavoratori che continuamente sono in grado di svolgere attività tramite lavoro digitale. In Italia sono il 3,8%. Stiamo parlando all’incirca di 500 mila persone. Adesso con l’imposizione del distanziamento sociale è stata necessaria una riorganizzazione tempestiva di gran parte delle attività produttive. Questo vuol dire che noi partiamo da condizioni strutturali assolutamente inadeguate anche rispetto ad altri paesi europei, dove – ad esempio nei paesi scandinavi – si arriva ad una percentuale del 10% rispetto alle persone che abitualmente svolgono attività da casa. In Italia abbiamo una organizzazione della struttura produttiva e una domanda di lavoro da parte delle imprese che è largamente concentrata su mansioni di qualifica bassa e anche su attività che non permettono di autogestire il proprio lavoro. Una delle questioni fondamentali è che la possibilità di telelavorare attiene a quella parte delle professioni che si collocano nelle fasce più alte (attività manageriali, scelte esecutive, quindi dare ordini e organizzare). E’ molto più facile dare ordini attraverso il telelavoro piuttosto che eseguire delle mansioni materiali. Noi abbiamo una forza lavoro che è fortemente polarizzata e concentrata nel fare delle mansioni che richiedono una forte presenza fisica, esposizione alle relazioni con gli altri e quindi anche a forme di contagio. Voglio far notare che si tratta di una forza lavoro molto vulnerabile perchè in termini di salari, di distinzione contrattuale, il restante 70% dell’occupazione (quasi 16 milioni di lavoratori in Italia) hanno salari in media molto più bassi, molto più concentrati rispetto a quelli che possono telelavorare da casa. Ciò significa che stiamo sommando fragilità a fragilità. Pensare di gestire l’organizzazione del lavoro e la sicurezza dell’occupazione e del reddito semplicemente dicendo alla gente “lavorate da casa” è veramente inadeguato.

Maria Enrica Virgillito, veniamo ora al tipo di risposta che lo stato deve dare agli effetti diseguali della pandemia. Come si deve comportare lo stato?

Guardi, in questa fase sono ritornate in voga alcune delle teorie che solitamente non vengono neanche insegnate nella storia della politica economica. Ad esempio, la teoria dello statocome employer of last resort, lo stato come ultima chance di occupazione. Vorrei distinguere vari livelli rispetto al ruolo dello stato nell’economia. Il primo punto che dobbiamo avere chiaro è come – ancora in questa fase dopo quasi due mesi dai primi casi di Codogno – noi non siamo ancora riusciti a garantire in modo centralizzato l’approvvigionamento di dispositivi di sicurezza per i lavoratori. Non siamo stati neanche in grado di chiedere alle imprese italiane di produrre non solo questi dispositivi ma nemmeno i farmaci. Ciò significa che manca fortissimamente da parte dell’organizzazione del governo la capacità di mettere in piedi il tessuto produttivo italiano rispetto ad un obiettivo chiaro: in questo la necessità di produrre dei dispositivi di sicurezza, dei medicinali necessari (i laboratori ci sono).

Cosa si dovrebbe fare?

La prima cosa che dovrebbe essere fatta è garantire l’approvvigionamento di medicinali e dispositivi di sicurezza. Altri stati come la Francia e la Germania sono stati molto più in grado di noi di gestire in modo coordinato l’approvvigionamento.
Poi c’ il ruolo dello stato rispetto alle misure di sostegno al reddito, di mantenimento degli occupati. Qui entrano in gioco due livelli. Prima di tutto dobbiamo distinguere la capacità dello stato di intervenire nel breve e nel medio periodo. Nel breve periodo occorre decidere una garanzia universale di sostegno al reddito. In Italia c’è una quantità enorme di lavoro sommerso, soprattutto al sud. Andavano fatti dei trasferimenti diretti, si chiamano “helicopter money” o meglio assegni diretti che arrivano a casa delle persone e che devono essere dati in questa fase emergenziale.

Tutto ciò riguarda il breve periodo. E nel medio, cosa si dovrebbe fare?

Nel medio periodo servono interventi che devono ripensare in modo organico  l’organizzazione del lavoro all’interno delle imprese, ma in generale la composizione dei lavori, la qualità e i tipi di lavoro che la gente svolge. Questa pandemia deve, secondo me, porre nuovamente sotto la lente di osservazione il ruolo del lavoro e deve anche poter aprire la possibilità di dire che ci sono dei lavori che non vogliamo fare e altri lavori che in alcune condizioni non possono essere svolti. E anche che servono per molti lavori degli incrementi di salario.

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    Teatro. La rivoluzione delle "piscinine" milanesi vista da due piccioni in crisi esistenziale Al Teatro della Cooperativa, a Milano ha debuttato in prima nazionale "Lo sciopero delle bambine", in scena Rita Pelusio e Rossana Mola di PEM Habitat Teatrali, compagnia che porta avanti una ricerca artista che declina contenuti civili e ironia. Lo spettacolo, con la regia di Enrico Messina, racconta una storia avvenuta a Milano nel 1902, quando le “piscinine”, che in dialetto meneghino significa “piccoline”, bambine, tra i sei e i tredici anni, che lavoravano senza diritti, sfruttate e sottopagate, ebbero la forza di scioperare e, per cinque giorni, fermare l’industria della moda della città. A raccontare la vicenda delle piscinine in scena sono due piccioni, due creature che abitano le piazze, le cui parole rispecchiano lo sguardo dei contemporanei, spesso stanchi e disillusi davanti alle sfide della storia. Nella trasmissione Cult Ira Rubini ha intervistato l’attrice Rita Pelusio.

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