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Coronavirus isolato allo Spallanzani. La direttrice Capobianchi: “È un vantaggio per il futuro, non per oggi”

coronavirus medico spallanzani roma

L’epidemia da coronavirus 2019-nCoV continua a crescere e negli ultimi giorni due cittadini cinesi sono risultati positivi a Roma, prontamente ricoverati all’ospedale Spallanzani mentre il governo di Giuseppe Conte ha dichiarato lo stato di emergenza sanitaria.

Grazie ai due casi confermati in Italia, le ricercatrici dell’ospedale Spallanzani di Roma sono riuscite ad isolare il coronavirus, aprendo alla possibilità di conoscerlo meglio e valutare una possibile cura. Ne abbiamo parlato con Maria Capobianchi, direttrice del laboratorio di virologia dell’ospedale Spallanzani.

L’intervista di Alessandro Braga a Fino alle Otto.

Quanto è importante il lavoro che avete fatto?

Preciso che non si tratta di una scoperta, ma di un risultato. Il coronavirus è stato scoperto dai cinesi dall’inizio di gennaio. Noi abbiamo isolato il virus a tempo di record da uno dei primi due pazienti che sono arrivati e sono stati diagnosticati da noi allo Spallanzani alcuni giorni fa.
Questo virus isolato per noi è un risultato perché ci permette di avere a disposizione il coronavirus, che cresce in coltura: un modello di replicazione che serve a studiare il virus e le sue proprietà biologiche. Questo é indispensabile quando si viene a conoscere un nuovo virus. È indispensabile per capire come si comporta, le sue caratteristiche biologiche e le sue proprietà di uccidere le cellule e danneggiare il sistema immunitario. Ma è importante anche perché ci dà la possibilità di testare farmaci e avere le premesse per arrivare alla costituzione in un vaccino. E non è da trascurare la possibilità di usare il virus per raffinare gli strumenti diagnostici e costruire uno standard. C’è tanto lavoro da fare, c’è tutta una prassi canonica quando si scopre un virus per arrivare ad allestire le misure giuste per affrontare l’emergenza.
Quello che ci ha ostacolato in questi giorni è il non avere ancora strumenti semplici di diagnosi. Come è accaduto per altri istituti e laboratori, ci siamo dovuti costruire il nostro strumento diagnostico sulla base di protocolli sperimentali. Non ci sono kit commerciali, quindi si tratta di un lavoro per il momento molto artigianale e che impegna molto la bravura del personale. Io sono sicura che da adesso in poi questo lavoro sarà più facile.
In questo momento quello che preoccupa di più è la capacità diagnostica. Ad esempio non abbiamo test sierologici per misurare gli anticorpi e valutare la risposta degli anticorpi nelle persone infette.

Dopo l’isolamento del virus cambierà qualcosa nella cura dei pazienti ricoverati allo Spallanzani?

No, questo non ha nessun vantaggio per il singolo paziente. Avere isolato il virus significa dover mettere a punto modelli di studio e questo oggi non ha ricadute sul paziente. Potrà averne sulla possibilità di fare degli screening di farmaci, provarli in vitro e quindi fare i primi passi verso l’identificazione di sostanze attive contro il virus. È un vantaggio del futuro.

Come avete fatto ad arrivare all’isolamento di questo virus?

Isolare un virus vuol dire crescerlo in coltura. L’acido nucleico e la sequenza del genoma è stata già decifrata dai cinesi e resa pubblica. Il risultato non è l’avere decifrato il genoma del virus, questo lo faremo nei prossimi giorni. Per ora ne abbiamo decifrato una piccola parte che ci serve a confermare l’identità del virus. Mettere in coltura il virus è una pratica di virologia classica, sono i vecchi metodi della virologia che ci hanno tramandato i nostri maestri e che oggi è una pratica che si fa perdendo perché non più considerata un metodo pratico.
Abbiamo preso i campioni clinici sui pazienti non appena notata la presenza del virus. Dopo la prima diagnosi abbiamo messo i campioni in coltura con le cellule vero, una pratica molto famosa e comune per l’isolamento virale. Una volta messo il virus sulle cellule abbiamo aspettato che comparissero i segni della replicazione del virus, che si manifestando come un danneggiamento delle cellule visibile al microscopio. A questo punto il virus cresce, lo si può propagare in vitro e lo si può coltivare. Ce l’abbiamo in coltura. Senza queste tecniche non sarebbe possibile avere i ceppi che sono un patrimonio che viene custodito molto accuratamente e messo a disposizione quando si devono sviluppare nuovi metodi diagnostici e quando si devono fare screening di molecole potenzialmente attive e studiare le caratteristiche biologiche.

Foto dalla pagina Facebook dell’ospedale Spallanzani di Roma

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    “Mi ricordavo di questo omino con gli occhiali che leggeva degli annunci un po’ strani”, racconta Valerio Finessi, regista di “Walter Valdi, un milanese a Milano”. Finessi descrive in un documentario la figura di Walter Valdi (Nicola Walter Gianni Pinnetti 1930-2003), cantautore e cabarettista della squadra storica del Derby Club di Milano. Prima avvocato e poi attore, è stato diretto da Giorgio Strehler, ha sempre scelto di cantare in dialetto milanese, senza però ottenere il successo di altri suoi compagni di lavoro come Cochi e Renato, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci. “E’ stato dimenticato perché la scelta del dialetto meneghino lo ha un po’ isolato” spiega Finessi. Walter Valdi ha scritto brani per il Coro dell’Antoniano, portati in scena allo Zecchino d’Oro e ha recitato in alcuni film di Maurizio Nichetti, Carlo Lizzani, Ermanno Olmi e Luigi Comencini. Ascolta l'intervista di Barbara Sorrentini a Valerio Finessi.

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