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Coronavirus, Europa e il sostegno agli artisti. L’intervista a Paolo Fresu

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coronavirus - teatro vuoto

L’epidemia di coronavirus COVID-19 sta tenendo l’Italia bloccata ormai da settimane, a cominciare dalla Lombardia che è stata la prima Regione d’Italia a dover fare i conti con una situazione di emergenza che pian piano si sta estendendo al resto del Paese. Le misure messe in campo dal governo e dalle istituzioni stanno mettendo in ginocchio interi settori produttivi.

Aziende costrette a fermarsi, lavoratori in riposo forzato, scuole e università chiuse fino a nuovo ordine. E lo stesso vale per i luoghi della cultura e dell’arte. Gli artisti sono quindi costretti a fermarsi e con essi anche tutti quei lavoratori che rendono possibili gli spettacoli. Migliaia di persone che in Italia, di fatto, non vengono tutelate.

Ne abbiamo parlato col musicista Paolo Fresu, che insieme ad altri artisti sta conducendo una battaglia anche i cosiddetti “lavoratori ad intermittenza”, come vengono chiamati in Francia, siano tutelati dallo Stato e dalle istituzioni in momenti di crisi come quello che stiamo vivendo in queste settimane.

L’intervista di Ira Rubini a Cult.

Sei da poco tornato dalla Francia. Che impressione hai avuto di questo viaggio così recente?

È stato un viaggio di un giorno, ma mi ero ripromesso di fare una sorta di diario di viaggio per condividere quello che accade oggi fuori dall’Italia.
Questo viaggio inizia con una Bologna deserta. Sono dovuto andare fino a Firenze per prendere un aereo per Parigi, perchè da Bologna non c’erano voli in partenza. Sono solito sul treno, ho visto la stazione di Bologna e la stazione di Firenze, sembrava davvero di essere in luoghi deserti. Poi ho preso un aereo per Parigi e nel momento in cui sono sbarcato lì, senza alcun tipo di controllo, ho visto un monto totalmente diverso. L’aeroporto di Parigi era come sempre pieno di gente, sembrava che non fosse accaduto nulla. Neanche i giornali avevano notizie del coronavirus in prima pagina, ma solo qualche avviso che nei prossimi giorni sarebbero state prese delle decisioni più drastiche perché in alcuni dipartimenti del nord-est della Francia ci sono dei casi di coronavirus COVID-19. Diciamo però che la vita in Francia è apparentemente normale. A Parigi Sono state date le indicazioni di mantenere una certa distanza tra le persone, ma la gente continua a vivere una bizzarra normalità per chi arriva da un Paese come il nostro che sta vivendo un momento di crisi profondissima. Stupisce che non ci sia una Europa capace di prendere delle decisioni drastiche per tutti. Il problema non siamo solamente noi, ci troviamo in un’Europa in cui la gente circola, anche se forse meno prima. Ci sono delle realtà diverse sotto il profilo politico ed economico, ma non possono esserci realtà diverse sotto il profilo sanitario. L’epidemia di coronavirus COVID-19 riguarda tutti: muoversi in Europa significa andare da una parte all’altra in un tempo brevissimo. E allora come è possibile che si parta da un Paese come il nostro, che sembra in guerra, e in un’ora si arriva in un altro luogo in cui c’è questa normalità? Questa diversità mi ha molto colpito, non vuole essere un processo a nessuno, ma è solo un pensiero: se dobbiamo limitare i danni, non solo in Italia dove si sta facendo in modo drastico, anche fuori dal nostro Paese è necessario che ci sia una condivisione totale nei Paesi dell’Europa.

“VIAGGIARE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS”
Alle 7.13 del 7 marzo salgo sul regionale Prato-Bologna in perfetto orario.
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Posted by Paolo Fresu on Sunday, March 8, 2020

Le ultime notizie dalla Francia parlano in un picco molto violento di infezioni da coronavirus. Come spesso accade in questo tipo di emergenza, le cose possono cambiare di ora in ora.

Einstein diceva che nei momenti di vuoto nascono le cose più importanti. Ed è questa la riflessione che stiamo facendo anche noi artisti sul bisogno di reimpostare tutto e mettere l’arte in un luogo diverso. È difficile parlare di sé stessi e del proprio modo, ora la sofferenza è di tutte quelle persone che hanno impostato pensieri sul futuro e ha fatto un progetto su sé stesso. Parlare soltanto dell’arte sarebbe ingiusto nei confronti delle tantissime categorie che stanno soffrendo enormemente. Questo è il momento in cui l’Europa dovrebbe davvero diventare Europa.
L’artista da molto tempo è riconosciuto dallo Stato non solo per il suo ruolo di ambasciatore della cultura, è quella figura capace di far pensare meglio e di donare un sorriso o un’emozione. Questo è assolutamente necessario in questo momento. In Italia ci stiamo rendendo conto di quanto l’arte sia fondamentale per il nostro Paese, perché nel momento in cui non c’è l’arte e non c’è l’opportunità di incontrarci in un teatro o in un museo viene a mancare quell’elemento fondamentale che non attrae solo noi, ma anche tutti gli altri che vengono in Italia perché siamo il Paese dell’arte, della cultura e dei monumenti. Resta il fatto però che noi artisti siamo totalmente lasciati a noi stessi, siamo quello che in Francia vengono definiti con una parola molto brutta, “intermittent du spectacle“, gli intermittenti dello spettacolo. Esiste un modo, abbastanza grande e neanche troppo sommerso, fatto di tutti quelli che lavorano ad intermittenza nello spettacolo: gli artisti che salgono un palcoscenico, ma anche tutte quelle professionalità che lavorano dietro uno spettacolo, dalle segreterie agli uffici stampa, dai macchinisti ai tecnici del fuoco. È una realtà molto vasta che copre il cinema, la musica, il teatro e tutte le altre forme di spettacolo. L’intermittente è colui che il giorno in cui lavora è acceso e il giorno dopo si spegne. È una modalità difficile da riconoscere, ma che anche i francesi sono riusciti in qualche modo a riconoscere. Quanto l’intermittente si spegne ha bisogno di essere assistito. In Italia questo non esiste, gli artisti non hanno mai avuto una opportunità: se lavora, lavora e se non lavora deve fare i conti con sé stesso e con le sue bollette. Non c’è alcun tipo di protezione, è difficile avere una pensione e bisogna avere una quantità di giornate lavorative che nessun artista può avere. È una battaglia che stiamo facendo da tempo, senza riuscire a portarla a termine.
La crisi per l’epidemia di coronavirus che stiamo vivendo in questo momento mostra ancora una volta il lato debole, ma è momenti come questi che bisogna ripartire chiedendo al legislatore e allo Stato che ci siano degli aiuti imminenti. È fondamentale che in questo momento ci sia una tesa di mano. Gli artisti stanno soffrendo enormemente, sono a casa da tempo e non sanno quando si riprenderà. Non basta che ci sia un tamponamento di questa realtà, bisogna proprio riposizionare il mondo dell’arte in un luogo nuovo per il futuro affinché, quando finirà questa crisi, non ci si dimentichi di quello che siamo stati e di quanto siamo stati male. Oggi dobbiamo capire come il mondo dell’arte possa vivere con una modalità diversa affinché, se domani avessimo un altro problema come questo, il mondo dell’arte abbia una dignità e un’attenzione diverse da parte del nostro sociale. La nostra battaglia è duplice: da una parte bisogna risolvere il problema che stiamo vivendo durante questa epidemia di coronavirus, dall’altra bisogna riflettere affinché il mondo dell’arte sia al pari con altri Paesi europei che riconoscono già la figura dell’artista.

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    Redazione
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    Il 7 dicembre la Scala apre la stagione con l’opera censurata da Stalin

    Nel cinquantenario della morte di Šostakovič il Teatro alla Scala inaugura la Stagione con il suo capolavoro Una lady Macbeth del distretto di Mcensk, tratto dal racconto di Nikolaj Leskov in cui una giovane sposa con la complicità dell’amante uccide il marito e il tirannico suocero, ma viene scoperta e finisce per suicidarsi in Siberia, tradita da tutti. Dopo il debutto a San Pietroburgo, l’opera, che avrebbe dovuto essere il primo capitolo di una trilogia sulla condizione della donna in Russia, ebbe enorme successo in patria e all’estero. Stalin assistette a una rappresentazione a Mosca nel 1936; due giorni dopo apparve sulla Pravda la celebre stroncatura dal titolo “Caos invece di musica” con cui il regime metteva all’indice l’opera e il compositore. Anni dopo Šostakovič preparò una nuova versione che andò in scena a Mosca nel 1963 con il titolo Katarina Izmajlova, dopo che il sovrintendente Ghiringhelli aveva invano cercato di ottenerne la prima per la Scala. Oggi il Teatro presenta la versione del 1934 con la direzione del M° Chailly e il debutto del regista Vasily Barkhatov. Ascolta Riccardo Chailly nella presentazione dell’opera.

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