Rex Tillerson, il segretario di Stato statunitense, chiede nuove, accentuate sanzioni contro la Corea del Nord al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e subito dopo Pyongyang effettua un lancio missilistico. Fallito, come quello di due settimane fa, ma comunque un messaggio chiaro di sfida. C’è quasi una prevedibilità nelle cosiddette “provocazioni” di Pyongyang: tutte le volte che avversari – come gli Stati Uniti – e presunti alleati – come la Cina – stanno prendendo decisioni che riguardano la penisola, la Corea del Nord manda un avvertimento.
È il 75esimo lancio da quando Kim Jong Un è salito al potere nel 2011, un’escalation rispetto ai test missilistici compiuti da suo padre, Kim Jong Il.
È aperto il dibattito sul perché due tentativi di fila sano falliti. C’è chi ipotizza il successo di un programma di sabotaggio informatico lanciato dall’amministrazione Obama, ma d’altra parte sono forti le obiezioni di chi ritiene la tecnologia di Pyongyang troppo arretrata e quindi paradossalmente immune a un attacco così sofisticato. Si tratterebbe di fallimento del tutto domestico, punto.
Stanotte Trump ha immediatamente twittato che il lancio manca di rispetto alla Cina, ma in realtà sono proprio Stati Uniti e Corea del Nord a essersi avvitati in un circolo vizioso di minacce e contro minacce ed è proprio Trump l’elemento nuovo e destabilizzante in un contesto, quello dell’Asia Nord Orientale, dove tutti gli attori in gioco erano ormai abituati a vivere in un delicato equilibrio dove l’imprevedibilità di Pyongyang era tutto sommato prevedibile.
Cina e Russia insistono nell’opporsi all’opzione militare, Pechino continua a ripetere che la responsabilità del dossier nordcoreano deve essere condivisa e che la Cina da sola non può fare molto, premendo per una ripresa dei colloqui a sei, ma gli Stati Uniti vogliono prima un’umiliazione di Pyongyang e poi, forse, la ripresa dei colloqui. Scenario altamente improbabile.
Da parte sua, la Corea del Nord persegue sempre più l’opzione missilistica e nucleare per tutelarsi contro ogni ipotesi di cambio di regime che gli Stati Uniti hanno in passato attuato più volte in altri Paesi definiti, proprio come la Corea del Nord, “Stati canaglia”.
Ci sono dunque esigenze strategiche diverse tra tutti gli attori in gioco che rischiano di creare un corto circuito molto pericoloso.
Proprio in occasione del tradizionale bilancio dopo i primi 100 giorni di Donald Trump alla Casa Bianca – con l’indice di gradimento per il neo-presidente che sarebbe già al di sotto del 40 per cento – alcuni osservatori di cose statunitensi sottolineano come in politica estera l’amministrazione sia nel caos più totale. L’Asia Team di Trump è ancora un ectoplasma indefinito, con il segretario alla Difesa James Mattis e il segretario di Stato Rex Tillerson che sgomitano per piazzare i propri sottosegretari preferiti nei posti chiave, mentre il presidente distribuisce bastoni e carote a seconda delle proprie idiosincrasie politiche e personali.
Mattis non è per esempio riuscito a dare un incarico a Mary Beth Long, una veterana del Pentagono con trascorsi alla Cia, mentre Tillerson ha dovuto fare a meno di Elliott Abrams, un prominente neo-conservatore in circolazione fin dai tempi dello scandalo Iran-Contra. Entrambi si erano opposti al presidente nei giorni della sua candidatura e Long era anche tra i firmatari della campagna “Never Trump”. A casi come questi – non sono gli unici – si aggiunge la sostituzione di ben 28 ambasciatori dell’Era Obama, che lascia un vuoto ancora da colmare.
Così, Tillerson è stato spedito a navigare a vista in Asia Orientale a metà marzo, in una missione diplomatica ad ampio raggio che doveva costantemente fare i conti con i tweet estemporanei del presidente. L’esportazione di questo caos in Asia Orientale è stata del tutto consequenziale.
Dietro al caos c’è però il disegno di lungo periodo, che è il contenimento della Cina: la superpotenza di oggi che cerca di impedire la crescita della superpotenza di domani facendo leva sul vantaggio competitivo che ancora le appartiene, quello militare. Un disegno che per altro non dispiace ad altri player regionali, spaventati dall’ipotesi che Pechino stia cercando di ricreare un sistema di “Stati tributari” in Asia Orientale che ricorda l’era imperiale: la Cina al centro, benevola superpotenza regionale, e gli altri Paesi che traggono benefici dalla sua crescita ma, comunque, in posizione subordinata. Pechino, da parte sua, non fa molto per allontanare i sospetti, specialmente se si pensa alla sua politica estremamente assertiva nel Mar Cinese Meridionale. Giappone, Corea del Sud, ma anche Russia, sono in misura diversa interessati a un contenimento della Cina.
Infine, se ogni sistema tende in primis a riprodurre se stesso – gli Usa come potenza dominante, la Cina come potenza emergente – la Corea del Nord non sfugge certo a questo schema. Così, la politica missilistica e nucleare di Pyongyang sembra il deterrente per costringere gli Stati Uniti a sedersi al tavolo senza mediazioni di “estranei” per firmare finalmente quel trattato di pace in sospeso dal 1953, garanzia di sopravvivenza per il regime.
Probabilmente, l’unica strategia plausibile oggi consiste nel congelare la situazione: una non soluzione è spesso già una soluzione, secondo consuetudine asiatica. Ma l’ingresso dell’elefante Trump nella cristalleria dell’Asia Nord-Orientale – o Pacifico occidentale, dal punto di vista Usa – ha già messo la regione in sommovimento.