Se c’è un uomo che ha incarnato il potere a Washington prima dell’avvento dell’Epoca Trump, quell’uomo è stato Dick Cheney. Un potere ben visibile, ma allo stesso tempo occulto, capace di condizionare con la stessa abilità le scelte di politica estera ed interna, facendo presa, da una parte sulla sua grande influenza nei confronti di George W. Bush e dall’altra sulla perfetta conoscenza del Deep State e sulla capacità di muoverne i meccanismi e le risorse. Più che un Raspuntin, Cheney era considerato il Darth Veder della Casa Bianca. Un’anima nera, ma non nascosta. È stato l’architetto della Guerra al Terrore, l’uomo che ha spinto per l’attacco all’Afghanistan dopo l’11 settembre; il fautore dell’invasione dell’Iraq, dopo aver fabbricato le false prove di un legame tra Saddam Hussein e Al Qaida. Nel 1991 era stato il Segretario alla Difesa durante la prima Guerra del Golfo. Nel 2003 finì il lavoro iniziato con Bush Padre, ma concorse a fare sprofondare l’America in una nuova, stremante guerra. È stato il promotore, insieme al ministro della giustizia Alberto Gonzales, del Patriot Act, delle norme che, in nome della sicurezza nazionale, hanno portato alla creazione di Guantanamo, alle prigioni segrete della Cia, alle torture, ad Abu Graib, allo spionaggio nei confronti dei cittadini americani. È stato anche l’uomo dell’Halliburton e dell’industria petrolifera in un’amministrazione piena di conflitti di interesse. Dick Cheney ha interpretato così, in quegli otto anni alla Casa Bianca, il ruolo di vicepresidente come nessuno aveva mai fatto nella storia moderna degli Stati Uniti, estendendo il suo potere e la sua influenza ben oltre i limiti rispettati dai suoi predecessori in quella carica. Dietro ogni decisione, dietro ogni intrigo sembrava esserci lui. Una presenza tanto ingombrante da indurlo a valutare con Bush Junior se non fosse il caso di lasciare l’incarico in vista delle elezioni del 2004, ma tanto necessaria da convincere il presidente a chiedergli di restare. Nel 2009, con la vittoria di Barack Obama, i democratici presero il posto dei repubblicani alla Casa Bianca. Joe Biden, che era il numero due del Ticket, definì Cheney, il “più pericoloso”. Per anni, tra un infarto e l’altro, pur ancora influente, rimase ai margini della scena. Tornado prepotentemente alla ribalta quando la figlia Liz Cheney, deputata al Congresso, intraprese una battaglia politica durissima contro Donald Trump dopo il tentativo di coup del 6 gennaio. Cheney si è schierato con la figlia, arrivando ad attaccare il Tycoon in televisione, dandogli del codardo. Una parabola che ha spinto “il più pericoloso” a dare il suo endorsement a Kamala Harris nelle elezioni del 2024. Non certo perché avesse cambiato visione delle cose, ma perché, per lui, esponente del vecchio partito repubblicano, dell’establishment del decennio scorso, Trump rappresentava una minaccia. La nemesi della Storia. Nella sua autobiografia In my Time, Dick Cheney ha espresso poche autocritiche. Tra queste, non c’è certo quella di aver contribuito, con la sua interpretazione del potere quando era alla Casa Bianca, a spianare la strada all’uso, o meglio all’abuso del potere, con cui il suo ultimo nemico, Donald Trump sta flagellando la democrazia americana.


