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A Kiev per costruire le ragioni della pace

Kiev MEAN FB

L’idea di partenza ai più poteva sembrare solo un sogno: andare in un Paese dove le bombe continuano a cadere per affermare che non basta la resistenza armata contro l’invasore russo. E farlo in un momento in cui il letto del pacifismo è in secca rendeva quest’idea un azzardo. Il MEAN, “Movimento Europeo di Azione nonviolenta”, un’unione di oltre 40 organizzazioni, ci ha creduto e ha lavorato per mesi al fine di condurre in porto una prima iniziativa concreta: collegare le società civili ucraine e italiane, portando una ‘delegazione’ di quest’ultima a Kiev per parlare di pace proponendo azioni di pacificazione.

Una ‘delegazione’ formata da una sessantina di persone provenienti da mondi e culture diverse: dall’universo religioso a quello laico. In comune, per molti loro, un lavoro quotidiano per gli ultimi nelle periferie del Bel Paese. Soggetti del mondo del volontariato e movimentisti radicali. Agricoltori sociali e consiglieri comunali. Ricercatori e docenti universitari. Un giovane frate e un prete che da una vita in Calabria combatte la ‘ndrangheta. Insegnanti, librai e medici. Un europarlamentare del PD (Pierfrancesco Majorino) e Marianella Sclavi, sociologa e attivista di respiro internazionale.

Il loro vangelo (o libretto rosso, a secondo dell’appartenenza) sono le riflessioni di Alex Langer. “L’Ucraina non è il palcoscenico dei nostri desideri e dei nostri ragionamenti, e men che meno dei nostri sentimenti“, recita uno dei punti del decalogo del MEAN. Andare a Kiev invece era l’occasione per essere accanto agli ucraini aggrediti e martirizzati da troppe settimane. “Le mani che si stringono sono il nostro ponte” ha scritto Erri De Luca “La guerra è una terra desolata dove ogni minimo gesto di fraternità ha la sfacciata forza di negarla“. Una delle parole d’ordine adottate dal MEAN, giocando sul significato della parola inglese ‘arms’, è MORE ARMS FOR HUGS: più braccia per gli abbracci. E per rendere questo abbraccio ancora più intenso il primo atto dei pacificatori italiani, una volta arrivati a Kiev, è stato incontrare una delegazione ucraina e, assieme a loro, collegarsi con una quindicina di piazze italiane.

Da Milano a Battipaglia, da Aversa a Manfredonia, da Nocera Inferiore a Pomigliano d’Arco (c’era anche un collegamento da Londra). In alcune piazze un drappello di persone, in altre alcune centinaia. Tutte avevano preparato un intervento, molte anche una canzone. MC della serata, da Kiev, Tetyana: una giovane signora ucraina che da anni vive a Benevento (è una soprano e, potenza della multiculturalità, insegna canto beneventano). Una Master of Cerimony che ha dovuto contingentare i tempi degli interventi perchè, dove c’è una guerra, il tempo non puoi gestirlo a piacimento.

Alle 23 scatta il coprifuoco e il personale della sala dove staccare alle 21, per poter raggiungere in tempo la propria abitazione. Che non sei padrone del tuo tempo i pacificatori italiani l’hanno capito anche quando, stanchi dal lungo viaggio (una volta Kiev era raggiungibile con due ore di volo, ora che lo spazio aereo è chiuso dal 28 febbraio, ce ne vogliono 30), pensavano di andare a dormire. Il suono della sirena e il messaggio di una apposita app informavano della possibilità di un attacco aereo e quindi della necessità di ripararsi in un rifugio.

Nella seconda giornata, lunedì 12 luglio, la carovana dei pacifisti italiani è stata ricevuta in Municipio. Ad attenderli, nella Sala delle Colonne, la più prestigiosa dell’edificio, Visvaldas Kulbokas, Nunzio Apostolico in Ucraina, e l’ex pugile Vitali Klitschko, oggi sindaco di Kiev. Quest’ultimo nel suo intervento, tra l’altro, ha detto: “Ci descrivono come nazionalisti esaltati. Io stesso sono la prova che si tratta di una menzogna. Mia mamma è russa. In me scorre sangue russo. Lei vive qui senza aver mai imparato l’ucraino. È stata discriminata? È stata offesa? Mai. Nel nostro Paese la convivenza di nazionalità e lingue diverse è una realtà. È anche una ricchezza da preservare“.

Riprendendo questo concetto Angelo Moretti, portavoce del Project MEAN, nel suo intervento ha ribadito che “siamo qui anche per difendere – accanto ai dissidenti russi – il futuro della cultura russa, della sua letteratura, della sua musica, dei suoi campioni sportivi, della sua arte, del suo ingegno. L’Europa non sarebbe Europa senza Tchaikovsky e Dostoevskij, senza Pastenak e Tolstoy, senza Sacharov e Checov”. Ed ha proseguito citando il partigiano Germano Nicolini: “La gente pensa che la Resistenza sia stata soltanto un fatto d’armi. Ma sbaglia. La Resistenza fu soprattutto uno scambio collaborativo con il popolo. Le persone erano con noi perché noi ci siamo presi cura di loro. Non abbiamo lasciato mai la nostra gente. E loro non ci hanno mai abbandonato. Non mi hanno mai abbandonato“.

Ed è anche in nome di quella resistenza che i pacifisti sono venuti a Kiev. Per non lasciare soli gli ucraini e, per quanto possibile, cercare di dare loro un aiuto anche come società civile. Per fare ciò nel pomeriggio ci si è spostati in un museo dove ci si è divisi in gruppi di lavoro promiscui, formati da ucraini ed italiani. Sono state affrontate tematiche come il processo di partecipazione per discutere i negoziati possibili come società civile, giovani e recupero post traumatico, come proteggere i beni culturali, la (ri)nascita e il rilancio del turismo al termine della guerra.

È stato l’inizio di un lavoro che proseguirà nei prossimi mesi. Come recita il decimo paragrafo del decalogo del MEAN, “mettere in atto nuove forme e nuove tecniche del dialogo non ha nulla a che vedere con la rappresentazione di pacifisti e nonviolenti come anime belle intente ‘a giocare alla pace’ o a dichiararsi ‘neutralisti’ mentre gli ucraini sono costretti a far volare i missili anticarro. Pensare la pace vuol dire prepararla con un’Europa dei cittadini”. Ed è quello che, con il loro viaggio, hanno iniziato a fare i partecipanti di questa carovana.

  • Autore articolo
    Claudio Agostoni
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