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Si può amare Dylan anche solo leggendo i suoi testi

Il giornalista e critico musicale Carlo Bordone non ha dubbi: “Il Nobel a Dylan non è solo giusto. E’ doveroso”. Conoscendo la sua passione per il cantautore premiato oggi dall’Accademia di Svezia, lo abbiamo chiamato per un commento. Da fan, certamente, ma anche da grande conoscitore della musica.

Ha senso considerare le parole di Dylan separandole dalla musica scritta per accompagnarle?

“Io penso di sì. Anche perché conosco personalmente persone che non amano quella voce particolare che lo ha sempre caratterizzato e che, invecchiando, a volte lo fa sembrare quasi un alieno. Persone che preferiscono leggerlo, piuttosto che ascoltarlo. Lo stesso ragionamento si potrebbe fare per il teatro: è possibile apprezzare un testo teatrale anche leggendolo, senza assistere a una sua rappresentazione? Io risponderei ancora di sì. Credo che si possa godere della grande poesia di Dylan anche solo leggendolo”.

Si tratta di un autore la cui opera attraversa molti decenni: si può parlare a tuo parere di un’evoluzione della sua scrittura?

“Credo di sì. Dylan ha sempre assorbito linguaggi, testi, influenze, dai testi dei vecchi bluesmen fino alla Bibbia, e anche per questo possiamo parlare di fasi diverse del suo modo di usare la parola scritta. Ha iniziato stando perfettamente dentro gli stilemi della canzone folk, poi ha introdotto in quello schema la politica, poi se ne è stufato e ha incominciato a usare una lingua fiammeggiante e barocca, quella della ‘trilogia elettrica’. Poi a un certo punto, dagli anni ’70 in poi, ha ritrovato una certa semplicità, diventando in qualche modo meno ricercato, ma anche più profondo, soprattutto nei dischi in cui, seppur lateralmente, ha parlato di sé, come in Blood on the tracks. L’evoluzione più importante della scrittura di Dylan credo quindi che riguardi la prima parte della sua carriera”.

Ascolta l’intervista integrale con Carlo Bordone

Carlo Bordone su Bob Dylan

  • Autore articolo
    Niccolò Vecchia
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    Un consiglio per la pace a Gaza. Il "board" di Trump, un CdA che gestirà un business miliardario

    Si chiama “Board of Peace” e Donald Trump, il presidente degli Stati Uniti, l’ha pensato come il grande consiglio che guiderà – sulla carta - la ricostruzione di Gaza. Il disegno immaginato da Trump non prevede l'intervento degli organismi internazionali che hanno retto la sovranità del diritto per decenni. Nel futuro di Gaza – almeno per ora – non sono previste presenze come le Nazioni Unite, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l'Organizzazione Mondiale del Commercio. Il "Board of Peace" richiama molto l’idea di un consiglio di amministrazione (un “board”, appunto), che dovrà gestire un affare economico e finanziario colossale, un consiglio che avrà Trump come presidente. Il piano Trump in 20 punti, al paragrafo 9 recita: "Questo organismo (Board of Peace, ndr) definirà il quadro di riferimento e gestirà i finanziamenti per la ricostruzione di Gaza". Gestirà i soldi, proprio come un CdA che si rispetti. E le logiche finiranno per essere quelle del business e non della convivenza internazionale; dell’interesse privato e non dell’interesse pubblico; dell’autoritarismo che oscura la democrazia. Raffaele Liguori ha intervistato Fabio Armao, docente di relazioni internazionali all’università di Torino. È autore, insieme a Davide Pellegrino, di “Distopia americana. L’impatto della presidenza Trump sul sistema politico americano” (Mimesis, in uscita).

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