È stata la campagna elettorale di molti primati. Fino a domenica scorsa avevano già votato 735.000 newyorkesi nell’early voting, il voto anticipato, e un afflusso record di elettori si attende oggi. Mai tanti soldi sono stati spesi in pubblicità elettorale per un’elezione locale e mai un candidato, Zohran Mamdani, è riuscito a raccogliere così tanti volontari, 50.000, che hanno lavorato con passione ed entusiasmo per lui. È stata la campagna elettorale in cui un candidato giovane, socialista, di scarsa esperienza, Mamdani, appunto, è riuscito a diventare il candidato democratico grazie ad un programma centrato sui bisogni dei newyorchesi: affitti, costo della vita, trasporti, sbaragliando, mettendo in crisi la leadership del Partito Democratico. È stata la campagna in cui questioni internazionali, Gaza, per esempio, sono diventate parte del dibattito. Tra poche ore qui a New York si aprono i seggi per eleggere il nuovo sindaco e sono appunto molte le ragioni di interesse che questo voto suscita. Ieri è intervenuto anche Donald Trump che ha chiesto ai newyorchesi di votare il male minore per lui, cioè il cattivo democratico Andrew Cuomo, piuttosto che il comunista Mamdani. Il presidente minaccia di togliere finanziamenti federali a New York se Mamdani dovesse diventare sindaco. Gli ultimi sondaggi danno Mamdani ancora in testa, anche se Cuomo sventolando la minaccia comunista e musulmana è riuscito a recuperare punti. Oltre la cronaca, oltre il risultato, va detto che in questi mesi di campagna New York è diventata specchio, cartina al tornasole, incrocio di tante questioni globali. Giustizia sociale, futuro della sinistra, senso di comunità, destino delle metropoli. Ciò ha reso queste lezioni così importanti e così diverse. Ed ecco che, in questo momento, qui in America, nel mondo, si aspetta di sapere chi sarà il nuovo sindaco di New York.


