
La guerra ibrida tra Stati Uniti e Cina continua a svolgersi sottotraccia. Ma, sul piano dei commerci come su quello della geopolitica, è proprio questo lo scontro rispetto al quale tutti gli altri conflitti, a prescindere dalla loro natura, diventano secondari. Sarà infatti il braccio di ferro tra le due potenze a definire quale, tra le due diverse rimaste sul tavolo, sarà la governance mondiale del futuro. Quella dell’amministrazione Trump è sovranista, isolazionista, estranea al diritto internazionale e alle regole del WTO, basata sul potere militare e tecnologico. Quella cinese, invece, è il frutto di una ragnatela di rapporti politici ed economici costruiti negli ultimi trent’anni: multilateralista e pro-WTO, critica nei confronti del colonialismo e del neocolonialismo.
Gli ultimi due episodi di questa guerra ibrida si stanno combattendo sul terreno della finanza e del commercio. Dapprima, Pechino ha ristretto l’export verso gli USA di metalli strategici, di cui è il fornitore mondiale predominante, dimostrando che senza i metalli estratti in Cina dalle terre rare l’industria ultratecnologica a stelle e strisce si ferma. Il secondo episodio riguarda la soia, di cui gli Stati Uniti sono il secondo produttore mondiale dopo il Brasile. Soia OGM, che si utilizza per produrre biocarburanti e olio commestibile, ma soprattutto come foraggio per il bestiame. La Cina da sola importa il 60% della produzione mondiale. Ora, a ridosso della campagna d’autunno, ha deciso di non comprarne più un grammo dagli Stati Uniti: in altri anni c’erano già ordinativi per 12 milioni di tonnellate.
Dunque, la soia di cui sono assetati i cinesi non sarà più acquistata dai farmer statunitensi, vicini politicamente a Donald Trump, ma in Brasile e in Argentina. È un duro colpo, sferrato tra l’altro quando la soia arriva a maturazione e per i produttori diventa molto difficile, se non impossibile, trovare acquirenti alternativi. Nemmeno durante il primo mandato di Trump, che fu segnato dalla guerra commerciale con la Cina, si era arrivati a quota zero. Certo, Pechino è molto più forte adesso, e lo è per il combinato disposto tra la sua capacità di acquisto di derrate alimentari e il suo status di quasi monopolista dell’export di minerali strategici.
La risposta degli Stati Uniti passa invece da strade tortuose e difficilmente potrà avere successo. L’appoggio senza limiti offerto finora a Javier Milei, presidente dell’Argentina, da Donald Trump, che ha disposto che siano gli USA a salvare l’economia argentina, prevede una contropartita: Buenos Aires deve chiudere lo swap, cioè lo strumento finanziario, che ha firmato con la Cina ed è chiamata a ridimensionare il ruolo di Pechino nei suoi rapporti commerciali. Ma la Cina è il secondo partner economico argentino, dopo il Brasile, e compra carne, cereali, metalli. Tutti prodotti che gli Stati Uniti non acquistano, producendoli invece in proprio. In che modo l’Argentina potrebbe sostituire la Cina con gli Stati Uniti nei suoi rapporti commerciali? Nessuno sa dare una risposta, ed è questa la forza della presenza cinese nel mondo. Mentre Washington minaccia dazi, esercita pressioni, sposta i suoi militari e divide il mondo tra amici e nemici, Pechino acquista merci, investe, parla di concerto tra le nazioni e fa il prestatore di ultima istanza. Soprattutto, non divide il mondo tra amici e nemici: alla Cina, vanno bene quasi tutti.
È difficile sapere come continuerà lo scontro tra i giganti. Se a un certo punto decidessero di sedersi a un tavolo per stabilire nuove regole, e di conseguenza un nuovo equilibrio mondiale, nessuno potrebbe opporsi, e molti conflitti odierni, come per magia, si chiuderebbero. Invece lo scontro politico ed economico continuerà finché non sarà chiaro quanto contino di meno gli USA e quanto conti di più la Cina rispetto al nuovo ordine che subentrerà al caos.