
Quella che si è svolta a Sharm el Sheikh appare la fase due, ma non tanto del processo di pace a Gaza quanto, del giro trionfante di Donald Trump in Medio Oriente per intitolarsi la fine del conflitto a Gaza. Dopo il discorso davanti alla Knesset c’è stato il vertice in Egitto. L’accordo di pace è stato firmato dalla ventina di leader presenti, ma questa è una delle molte anomalie, non si sa che cosa ci sia scritto nel documento firmato.
“Molte regole e regolamentazioni”, ha detto Trump, però non è dato sapere quali. Altra cosa singolare, quando si fa la la pace ci sono le parti che hanno combattuto la guerra. Qui non c’erano né i rappresentanti di Israele né di Hamas, quanto piuttosto quelli dei Paesi che hanno mediato l’intesa e una serie di leader che non sembrano essenziali in questo processo di pace. Resta una certa vaghezza anche in tema di calendario. Quello di oggi doveva essere l’inizio della fase due.
A una domanda dei giornalisti, Trump ha risposto però che “non c’è una fase due della pace perché la pace c’è già”. L’evento di Sharm el Sheikh sinora è dunque servito a proclamare la pace a rivendicarla, a dire che c’è. La realtà sembra però diversa. Mentre i leader si riunivano in Egitto, Hamas si riposizionava a Gaza. Diversi leader arabi hanno detto che non sarebbero arrivati a Sharm el Sheikh se ci fosse stato Netanyahu e non si sa se Israele sia disponibile a trattare su un futuro Stato palestinese.
Tutti segnali non proprio confortanti attorno ad un evento segnato, come consuetudine, dalle dichiarazioni roboanti di Trump. In particolare oggi si sarebbe, ovviamente col suo intervento, posto fine ad un conflitto di tremila anni.
I passaggi politicamente più significativi sono stati quelli in cui Trump ha detto che questo accordo di pace prelude ad una fase di stabilità per tutto il Medio Oriente.
Altra cosa importante è il momento in cui Trump ha disegnato un futuro possibile di benessere, di prosperità per i palestinesi, senza però mai parlare di un possibile Stato palestinese. Per il resto sono stati 66 minuti di discorso davanti alla Knesset, un discorso lungo, tortuoso, auto incensatorio, talora un po’ sconclusionato, che più che davanti ai membri del Parlamento sembrava diretto ai militanti del MAGA.
È stato il discorso in cui Trump ha celebrato a modo suo il successo diplomatico, indubbio, di questi giorni. Lo ha fatto insultando Barack Obama, Joe Biden, pretendendo di aver risolto otto guerre in otto mesi, trattando Netanyahu come se fosse una sorta di burattino ai suoi comandi. A un certo punto gli ha detto “Su, alzati e prenditi l’applauso”.
Alla fine restano le tante domande irrisolte, in una giornata che più che definire una tabella di marcia, più che risolvere le tante questioni aperte, proietta ancora molti dubbi sul futuro più prossimo.