
È una sistematica espulsione dei – già pochi – afroamericani dal governo del Paese. Le cifre di quest’anno della – purtroppo – strisciante segregazione razziale ministeriale parlano chiaro. Solo due dei 98 alti funzionari governativi nominati da Donald Trump nei suoi primi 200 giorni alla Casa Bianca sono afroamericani. Nella classifica delle ultime amministrazioni da George W. Bush in avanti, l’attuale, secondo un autorevole istituto sociologico, si colloca all’ultimo posto.
Non è una grande notizia, se si ricordano le venature razziste di molti discorsi di Trump. Lo è, in parte, se si pensa alla percentuale di afroamericani che lo hanno votato meno di un anno fa, il 15%, 7 punti in più rispetto al 2016. Nessuno si illudeva che la sua seconda presidenza fosse all’insegna dei diritti civili, ma nessuno pensava che imprimesse una velocità tale allo smantellamento di fatto della politica di diversità e inclusione.
Lo ha fatto negando l’accesso nella sua Amministrazione, lo ha fatto cacciando alcuni afroamericani dai posti di responsabilità. Ha mandato via il capo di stato maggiore delle forze armate Charlie Q. Brown, ha licenziato Carla Hayden, la direttrice della libreria del Congresso, ha allontanato Gwynne Wilcox, la responsabile dell’ufficio del lavoro, tutti sostituiti da maschi bianchi.
Ha cercato di cacciare anche Lisa Cook (nella foto) nel board della Federal Reserve, allontanamento bloccato da un giudice dopo che la donna aveva fatto ricorso. Secondo molti opinionisti questo significa solo una cosa: Donald Trump vuole colpire la classe media afroamericana. Lo ha fatto anche con il licenziamento di massa nelle agenzie governative, a farne le spese sono state soprattutto le donne.
L’amministrazione federale è uno dei primi ambiti in cui gli afroamericani risultavano in alcune posizioni di parità, ora con Trump sta facendo un salto indietro di decenni, di almeno 70 anni.