
Dall’ordine al caos. Intervista con Alessandro Colombo, docente di relazioni internazioni alla Statale di Milano.
Perchè il sistema internazionale liberale del dopo-guerra fredda è fallito?
Perchè in occidente la sovranità della legge è in frantumi e crescono le torsioni autocratiche delle democrazie?
Quale impatto avrà l’intelligenza artificiale nella costruzione di un nuovo ordine internazionale?
Alessandro Colombo è autore di «Il suicidio della pace. Perchè l’ordine internazionale liberale è fallito (1989-2024)» (Raffaello Cortina Editore).
Professor Colombo, quale ordine internazionle può nascere dal contesto attuale, quali tracce si possono intravedere?
Ma purtroppo qualche traccia di questo possibile nuovo ordine — che io non credo possa durare a lungo — la vediamo proprio in queste settimane, in questi mesi. È la tentazione di Donald Trump, ma per certi versi anche una sorta di smascheramento dei meccanismi di funzionamento che l’ordine internazionale ha avuto negli ultimi trent’anni.
L’ordine internazionale che si profila è un ordine fondato su una discriminazione abissale, in termini di potere, di diritti, e di diritto. È un ordine internazionale gestito in modo unilaterale — rigidamente unilaterale — dagli Stati Uniti, con il consenso, più o meno riluttante, ma comunque il consenso, dei principali alleati europei.
È un ordine che sembra non voler più neanche operare attraverso la mediazione delle istituzioni del diritto internazionale. Si esprime piuttosto in una sorta di “diritto del più forte”, che distribuisce le carte, che consente ai propri alleati di fare cose che non permetterebbe mai ad altri attori di fare.
Quindi, è un ordine internazionale che ci dà l’impressione di relazioni fondate sul puro e semplice esercizio del potere, senza alcuna — ripeto — mediazione di carattere giuridico. Questo è il risultato catastrofico, insomma, di quanto sta avvenendo da qualche mese a questa parte. Assistiamo a una marginalizzazione progressiva, quasi a un annientamento del tessuto istituzionale e normativo che ha sorretto la convivenza internazionale.
In Occidente si moltiplicano segnali di autoritarismo, anche in paesi tradizionalmente democratici. Questo ritorno dell’autoritarismo rappresenta un abbandono della sovranità della legge in favore della forza? Quali saranno le conseguenze di questa crisi del diritto internazionale?
Io distinguerei due aspetti. Il primo, se possibile, è ancora più deprimente: non mi sembra che in questo momento vi siano differenze significative tra i paesi europei più vicini a questa tendenza e quelli che, invece, si sono tenuti più distanti.
La politica di tutti i paesi occidentali, compresi quelli europei, è oggi una politica di estrema indulgenza nei confronti di una vera e propria demolizione del tessuto normativo della convivenza internazionale.
E questa è la seconda osservazione, che credo sia la più importante: sarebbe sbagliato — come stanno facendo molto spesso i quotidiani in questi giorni — interpretare ciò che sta avvenendo, sia in Iran che a Gaza, come uno scontro politico-strategico o come uno scontro di egemonia immaginario tra Israele e l’Iran.
No. Quella che costituirà probabilmente la conseguenza di lungo periodo più importante è il fatto che questa guerra — e il massacro di Gaza, che non è nemmeno una guerra — stanno già infliggendo un colpo, probabilmente mortale, agli standard di legittimità internazionale.
Oggi stiamo fondamentalmente accettando cose che fino a qualche anno fa sarebbe stato difficile accettare, o addirittura anche solo concepire. E questo ha conseguenze di lungo periodo. Tanto per cominciare, perché una violazione porta con sé altre violazioni. Costituisce un precedente, o potrà essere utilizzata come tale da altri.
Non mi ha stupito, per esempio, la brutalità dei bombardamenti russi sull’Ucraina. È una brutalità che probabilmente sfrutta già una finestra di opportunità che — che lo vogliamo o no — rischiamo di avere noi stessi procurato, con l’indulgenza che continuiamo a mostrare giorno dopo giorno di fronte a quanto accade in Medio Oriente.
L’intelligenza artificiale è già parte dei conflitti armati di oggi. In che modo il suo utilizzo — o il controllo del suo utilizzo — influenzerà il futuro ordine internazionale? E i paesi si stanno già posizionando su questo terreno?
Naturalmente sì, si stanno posizionando. L’impatto di questa risorsa rappresenta una sfida immane — non solo per le istituzioni politiche o per quelle militari, ma anche per il diritto. Il diritto sta letteralmente rincorrendo una serie di questioni che fino a qualche anno fa sarebbero state del tutto inconcepibili.
C’è un problema, naturalmente. Da un lato c’è una consapevolezza — io credo molto diffusa — della necessità di governare, in qualche misura, questo impatto. E questo vale anche, per esempio, in campo ambientale. C’è una consapevolezza che sarebbe necessario regolare l’impatto dell’intelligenza artificiale, così come quello del cambiamento climatico.
Il problema è che ci troviamo in una fase storica di fortissima competizione. E nelle fasi di fortissima competizione, cooperare è molto difficile.
È difficile per due ragioni che vengono comunemente evocate quando si parla delle difficoltà della cooperazione internazionale: è difficile cooperare perché tutti temono di essere ingannati dagli altri, ed è difficile cooperare perché tutti temono di dare più di quanto riceveranno.
Quindi, da un lato c’è la consapevolezza che si dovrebbe cooperare; dall’altro, c’è una consapevolezza altrettanto forte che questo è il momento peggiore per riuscirci.