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Agosto nero, Cantata rossa

Quarant’anni fa, il 12 agosto 1976, arrivava al suo tragico epilogo l’assedio del campo di Tall el Zaatar, a Beirut, uno dei capitoli più drammatici ma anche meno ricordati della vicenda del popolo palestinese. In occasione del venticinquesimo anniversario della battaglia e del massacro di Tall el Zaatar, nel 2001 Radio Popolare produsse per la propria collana discografica ArpA (Sensible Records) la prima ristampa dell’album La cantata rossa per Tall el Zaatar, concepito a caldo da Gaetano Liguori e pubblicato nel ’77. In due puntate vi riproponiamo le note di copertina del Cd, scritte da Marcello Lorrai. Questa la seconda parte, in cui abbiamo inserito ascolti dal disco.

***

La battaglia di Tall el Zaatar è “l’episodio più lungo, più sanguinoso della guerra civile libanese. Essa suscita una grande emozione nel mondo che può seguire, giorno dopo giorno, questo spietato assedio. Diventerà un simbolo della volontà di vivere del popolo palestinese, dell’incredibile crudeltà delle Falangi, e anche del cinismo dei regimi arabi, in primo luogo di quello di Damasco”, scrivono Alain Gresh e Dominique Vidal (2).

In un intervento sul quotidiano Il Messaggero, la scrittrice Edith Bruck dichiara: “Mi identifico negli occhi vuoti dei bambini trucidati dai cristiani maroniti che usano armi israeliane, mi riconosco nelle loro madri che si strappano i capelli dallo strazio come faceva la mia. (…) Sento la necessità e il dovere umano e civile, di chi è sopravvissuto al massacro di sei milioni di ebrei, di gridare, di ripetere, di protestare di fronte a Tall el Zaatar, di non dimenticare i ghetti, e i suoi morti e i nostri morti. Chi non grida oggi, non avrà diritto di piangere se domani dovesse toccare a lui. Chi è pacifista come me, usa la memoria come arma”.

Eppure il dramma di Tall el Zaatar non suscita affatto una partecipazione corale: in Italia non solo stampa e televisione, che pure hanno a Beirut fior di inviati, trascurano la tragedia libanese, ma anche la sinistra non si mostra nel suo complesso all’altezza della situazione. La Cantata rossa, spiega nel ’77 Gaetano Liguori al Quotidiano dei lavoratori quando il disco è in uscita (3), “è essenzialmente un discorso militante, un tentativo di riportare all’attenzione dei rivoluzionari e dei democratici italiani la tragedia del popolo palestinese. E’ incredibile considerare come un genocidio di simili proporzioni sia stato così facilmente ‘dimenticato’ dalla sinistra”.

Nato a Napoli nel 1950, cresciuto a Milano, Liguori diventa precocemente una delle figure di punta del jazz italiano di ricerca: “La parola d’ordine, per noi musicisti”, ha appunto scritto in una sua ricostruzione degli anni Settanta (4), “era ‘ricerca’: ricerca armonica, ritmica, melodica, ricerca di un contesto nuovo in cui operare, di un nuovo pubblico e di nuovi rapporti con il territorio”.

Figlio d’arte – il padre Pasquale, dai primi anni Cinquanta uno dei più apprezzati e versatili batteristi del jazz italiano, si è inserito negli sviluppi più avanzati del jazz della penisola – Gaetano dà vita con Roberto Del Piano al basso e Filippo Monico alla batteria (poi sostituito appunto da Pasquale Liguori) all’Idea Trio, che dalla prima metà degli anni Settanta è una delle formazioni più attive sulla scena del jazz nazionale, con centinaia di concerti in sedi convenzionali e soprattutto non convenzionali come scuole, fabbriche, piazze, manifestazioni politiche e situazioni di lotta.

Diplomato al Conservatorio di Milano in pianoforte e composizione elettronica, Liguori è uno dei protagonisti del jazz italiano che più hanno fatto propria la lezione del free jazz americano, e nel suo pianismo rivela un debito particolare nei confronti della poetica di Cecil Taylor. Assieme con artisti e gruppi di riferimento del jazz italiano d’avanguardia di allora come Cadmo, Andrea Centazzo, Giorgio Gaslini, Claudio Lo Cascio, Guido Mazzon, Omci, Patrizia Scascitelli, Mario Schiano, nel novembre del ’75 l’Idea Trio di Liguori partecipa alla rassegna “Nuove tendenze del jazz italiano”, che, organizzata dalla Commissione culturale del Movimento Studentesco, gruppo dell’estrema sinistra che ha a Milano la sua roccaforte, si tiene nell’Aula magna occupata dell’Università Statale.

Liguori si sente parte del movimento di contestazione e trasformazione nato nel ’68: un movimento che ha anche prodotto un nuovo pubblico giovanile di massa che nel cuore degli anni Settanta fa irruzione (a volte letteralmente) ai concerti di jazz, attratto dalle sue forme più ardite ed anticonformiste e dalle sue implicazioni sociopolitiche.

In Italia Liguori è fra quelli che più generosamente stringono il rapporto tra jazz e impegno politico: fra i titoli dei brani che compaiono nei suoi primi tre album numerosi testimoniano della sua urgenza di prendere posizione, di reagire anche nella musica agli eventi da cui il movimento si sente coinvolto: Cile libero, Cile rosso, Ballad for a murdered student, I signori della guerra, Tarantella del vibrione, Nuova Resistenza

Le notizie che arrivano da Tall el Zaatar impressionano profondamente Liguori: nel corso dell’estate l’Idea Trio presenta nei suoi concerti Libertà subito, un brano ispirato alla eroica resistenza del campo palestinese che confluirà poi nella Cantata. L’idea di un disco dedicato ai palestinesi comincia a concretizzarsi in settembre.

Liguori è uno degli artisti che partecipano alle attività e alle discussioni della Commissione Stampa e Propaganda del Movimento Lavoratori per il Socialismo (erede del Movimento Studentesco). Attivo nel sostegno alla causa palestinese, l’Mls pensa con le sue Edizioni di Cultura Popolare a una iniziativa discografica a favore di Al Fatah, che, con la fornitura di dischi destinati alla vendita, si traduca anche in sostegno materiale all’Unione generale degli Studenti Palestinesi in Italia.

L’ipotesi iniziale è quella di fare un disco che raccolga poesie palestinesi musicate da artisti italiani. Liguori ragiona del disco con Giulio Stocchi, poeta popolare legato al movimento studentesco, presenza abituale nelle manifestazioni e negli spettacoli nelle fabbriche occupate, dove recita i propri testi. Stocchi ha già pronto diverso materiale dettato dalla lotta e dalla tragedia del popolo palestinese, e così, parlando e riparlando del disco, nasce l’idea di un album “tutto italiano”.

Liguori propone allora di pubblicare un’opera organica e originale, in cui far entrare la musica in rapporto con testi sulla Palestina, e su questo progetto raccoglie la disponibilità della Commissione Stampa e Propaganda dell’Mls. Liguori ha in mente un disco che non sia indirizzato soltanto al pubblico del jazz, e che forzi i confini convenzionali fra i generi mettendo insieme musica di matrice neroamericana, poesia, musica popolare, sperimentalismo contemporaneo e suggestioni ricavate dalla musica classica. La poesia di Stocchi per Liguori è congeniale alla ricerca con questo lavoro dell’accessibilità ad un pubblico ampio, di una comunicativa immediata. Con Stocchi, Liguori si trova in sintonia perché parte “dalla consapevolezza di quanto accade nel mondo per creare una poesia semplice, realistica e diretta” (5).

Di fronte al dramma di Tall el Zaatar, e all’insensibilità di troppi davanti al massacro, al pianista non basta più la musica, non basta più un titolo come enunciazione di una ispirazione, come espressione di partecipazione ad un evento: Liguori sente il bisogno di una esplicita presa di parola. Dietro questo impulso c’è, dichiarata, la lezione di Brecht e Eisler e il desiderio di riviverla in un contesto diverso e a contatto con materiali musicali nuovi.

La Cantata rossa prende forma in studio. I testi di Stocchi vengono disposti in cinque “capitoli”. Del primo, I 53 giorni, che contiene riferimenti precisi ai responsabili dell’assedio e della strage finale, sono protagonisti il trio e la voce recitante di Stocchi.

Segue un brano del trio, Libertà subito.

Il secondo “capitolo”, Amna, è interpretato da Demetrio Stratos con l’unico commento del piano; Liguori pensa al modello voce recitante e pianoforte del Pierrot Lunaire di Schoenberg: lasciato libero, con la sua voce Stratos riesce magistralmente e con molto tatto ad offrire una straordinaria “messa in scena” della cruda storia della dodicenne Amna, che, sopravvissuta al massacro, è destinata a “divertire” i falangisti in un bordello.

Il terzo “capitolo”, Piccolo Fadh, si risolve in una breve introduzione di Stocchi ad un brano dove poi il trio continua da solo.

Il quarto, La madre, è originariamente destinato ad essere cantato da Concetta Busacca, che, figlia del cantante folk siciliano Ciccio Busacca, all’epoca lavora alla Palazzina Liberty con La comune di Dario Fo. Ma il testo non si presta alla sua interpretazione, e allora si escogita la soluzione di farlo recitare da Stocchi stesso, mentre Concetta Busacca canta a sfondo delle antiche melodie siciliane.

In pratica, invece di essere accompagnato dalla musica il testo viene sottolineato da una parte vocale che ha un nesso con le parole di Stocchi: si tratta infatti del lamento di una madre palestinese davanti al figlio ucciso e la Busacca canta una nenia sul figlio morto, poi un frammento sui fatti di Avola (un paese della Sicilia dove nel 1968 le forze dell’ordine sparano a freddo su una pacifica manifestazione contadina: il bilancio è di due braccianti uccisi e di diversi dimostranti, fra cui una bambina, gravemente feriti), e ancora una melodia triste. Un accorgimento che produce un effetto di grande forza, uno dei momenti più alti del disco. Alla fine del brano Liguori mixa in diretta la registrazione dell’inno di Al Fatah eseguito dal coro dei fedayn.

Dopo un altro strumentale del trio, il quinto “capitolo” è La cantata rossa, di nuovo col trio e la voce recitante di Stocchi: il tema della Cantata richiama la musica classica.

Come apertura e chiusura del disco il trio propone Fedayn, un tema che si collega alla musica araba, scritto da Liguori qualche anno prima: in cui la voce di Stocchi inserisce le parole di un poeta palestinese, Tewfik Zayad: “Questo popolo ha sette anime, ogni volta che muore rinasce più giovane e bello”.

Tutti i musicisti partecipano a titolo gratuito al lavoro. Con la copertina oggi riprodotta sul Cd e disegnata appositamente da Magda Castel, pittrice spagnola allora esule in Italia, l’album esce all’inizio del ’77. Duemila copie vengono diffuse attraverso canali militanti, durante manifestazioni e nel circuito alternativo. Duemila vengono fatte avere all’Unione generale degli Studenti Palestinesi. Il ricavato viene devoluto alla resistenza palestinese.

Ricorda Liguori: “Stocchi aveva dei dubbi sull’affinità fra il mio jazz e la sua poesia, la Busacca non sembrava a suo agio, neanche Demetrio era convinto della possibilità di riuscita, e il trio in definitiva si era occupato solo di mettere a punto i propri brani. Il mio compito è stato quello di comporre questo mosaico di interventi”.

In effetti la forza della Cantata, oltre che nel vigore dei diversi contributi, nella maturità del jazz del trio, nella palpabile tensione politica e nell’immedesimazione nel dramma che animano l’insieme, sembra risiedere proprio nel gioco di contrasti che presenta. Per esempio fra la declamazione impostata e il free jazz; o fra la veemenza militante di Stocchi, l’arcaica tragicità della Busacca e l’interpretazione di taglio quasi fumettistico di Stratos.

I salti di registro, la pluralità delle voci, la varietà delle soluzioni adottate, portano energia e nello stesso tempo trovano la loro cornice in uno sviluppo che, cadenzato dagli interventi del trio, si presenta con una sua chiara coerenza. In un crescendo, dall’evocazione lirica dell’argomento del dramma, passando attraverso gli “episodi” di Amna, della Madre e del Piccolo Fadh, si arriva all’invocazione epica (“ma che nessuno, nessuno pianga… non una lacrima dalle terre segrete del nostro dolore, non una lacrima , perché in piedi, in piedi sono morti…”). La formula retorica (“in piedi sono morti”) si trasforma in incitamento (“in piedi…in piedi !”), e in una sorta di resurrezione dei morti, che prelude allo scioglimento finale del dramma, con i versi di Zayad, nella consolazione di un orizzonte di speranza.

Per queste caratteristiche composite, è riduttivo vedere la Cantata, come fu fatto alla sua uscita, come un lavoro originale nel contesto del jazz politicamente impegnato dell’epoca: l’originalità della Cantata risiede proprio in una commistione di linguaggi che la colloca fuori dall’alveo jazzistico come un episodio a se stante.

In un primo momento Liguori pensa di coinvolgere Cathy Berberian, prestigiosa e spregiudicata interprete di musica contemporanea. Riesce anche a sottoporle del materiale, ma la cantante preferisce non esporsi in un’operazione politicamente così netta. Non c’è da stupirsi invece che Liguori non abbia difficoltà nell’ottenere la partecipazione di Stratos.

Nato nel 1945 ad Alessandria d’Egitto da genitori greci, Stratos arriva in Italia nel ’62 per studiare al Politecnico di Milano, ma finisce per consacrarsi alla sua passione, la musica. Gaetano e Demetrio si conoscono da quando negli anni sessanta Stratos è vocalist e tastierista dei Ribelli: a parlare a Gaetano di quel ragazzo che ha una voce interessantissima ed è un vulcano di idee è il padre Pasquale, che incide come turnista nella stessa casa discografica del popolare complesso beat.

Alla fine degli anni sessanta i Ribelli raggiungono una ampia notorietà con l’hit Pugni Chiusi. Stratos lega poi il proprio nome all’esperienza degli Area, il più innovativo pop-group italiano, che lascia il segno nella cultura e nella sensibilità giovanili degli anni settanta con una insuperata fusione di rock, jazz, avanguardia sperimentale e suggestioni mediterranee. Negli Area l’innovazione musicale si combina con la presa di posizione politica: il primo album del gruppo, Arbeit Macht Frei del ’73, si apre con la voce femminile che parla in arabo di Luglio agosto settembre (nero), che, ispirato dal problema palestinese, rimarrà uno dei cavalli di battaglia degli Area. Sulla copertina dell’album uno dei musicisti porta avvolta intorno alla testa una kefiah palestinese.

Liguori e Stratos si frequentano allora nel circuito dei concerti delle organizzazioni della sinistra vecchia e nuova, nelle Feste dell’Unità e nelle feste del “proletariato giovanile”. In contatto con figure di riferimento della musica contemporanea come John Cage, Stratos intraprende anche un rigoroso percorso di ricerca sulla voce testimoniato da album come Cantare la voce e Metrodora. Un percorso interrotto dalla grave malattia che lo stronca il 13 giugno 1979 a soli trentaquattro anni.

La produzione artistica di Demetrio Stratos sa coniugare la sperimentazione più avanzata con la capacità di parlare a larghe fasce giovanili; e, in una felice relazione di forma e contenuto, l’impegno con la novità estetica. La perlustrazione sistematica e scientifica delle proprie risorse vocali fuori dall’ordinario conduce Stratos a esplorare le tematiche, di cui la cultura giovanile e di movimento della seconda metà degli anni settanta è profondamente intrisa, del corpo, dell’inconscio, della soggettività, indicando un orizzonte di liberazione che oggi è tutt’altro che sorpassato.

Trascurata dalle ripubblicazioni in compact disc della discografia di Stratos, la sua partecipazione alla Cantata rossa è invece importante non solo per il livello della prestazione, ma anche perché sintomatica dello sganciamento di Stratos dal ruolo convenzionale di cantante e significativa del suo essere interno alla passione politica che attraversa il mondo giovanile e agita gli anni settanta. Nella voce di Demetrio Stratos in effetti i giovani che aspirano a “riprendersi” e a cambiare la vita sentono vibrare non soltanto fenomenali possibilità tecniche, ma anche e soprattutto l’immedesimazione nell’utopia e l’indignazione nei confronti dell’esistente.

Mentre la Cantata rossa è in corso di ristampa, continua lo stillicidio dei morti di una nuova intifada. A venticinque anni dalla sua uscita, accanto all’attualità artistica, la Cantata rossa continua ad avere anche un’altra attualità che avremmo preferito non mantenesse.

Aprile 2001

2. Alain Gresh, Dominique Vidal, Medio oriente. Guida storico-politica, Edizioni Associate, Roma 1990.

3. Intervista di Roberto Gatti, 21 gennaio 1977.

4. In “Musica Jazz”, febbraio 1998.

  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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