Approfondimenti

L’antropologo Arjun Appadurai, il COVID-19 e i fallimenti del linguaggio sociale

Arjun Appadurai

Memos ha ospitato un grande studioso della contemporaneità, uno dei principali rappresentanti dell’antropologia culturale. È il professor Arjun Appadurai che insegna “Comunicazione e cultura dei Media” alla New York University.

Arjun Appadurai è uno dei maggiori studiosi della globalizzazione. L’antropologo statunitense di origine di indiana vive a Berlino, dove Memos lo ha raggiunto. Un paio di settimane fa è uscito l’ultimo libro di Appadurai tradotto in italiano. Si intitola “Fallimento” ed è stato scritto insieme a Neta Alexander, studiosa di “Media e arte cinematografica”. Il libro è pubblicato da Raffaello Cortina Editore.

Nell’intervista a Memos il professor Appadurai parla di globalizzazione e COVID-19, di stato e responsabilità, di promesse e fallimenti. L’intervista è di Raffaele Liguori.

Professor Appadurai, sono passati sei mesi dall’inizio della pandemia. Il Covid-19 ha bloccato o rallentato la globalizzazione?

Poichè durante il Covid sono stati fortemente limitati viaggi, aeroporti, comunicazioni e specialmente movimenti di turisti, si pensa che sia stato schiacciato il bottone della pausa sulla globalizzazione e che allo stesso tempo vediamo una sorta di ritorno o di rinascita dello stato-nazione.
Penso che questa non sia un’analisi accurata, perché la globalizzazione continua a far parte del nostro mondo in molti modi.
Voglio dire che: la globalizzazione, come la rivoluzione industriale, come il capitalismo, è qualcosa di irreversibile.
Possiamo contestarli, ma non possiamo riportare indietro le lancette dell’orologio e andare in un mondo precedente la globalizzazione.
Vedo delle evidenze, delle prove, per le quali quasi tutti gli stati-nazione continuano a praticare i loro negoziati sul commercio globale, sul commercio degli armamenti che è molto attivo (in particolare in Francia, Stati Uniti, Arabia Saudita, India, China), un vero grande business.
Un altro esempio riguarda la finanza globale che controlla molto delle nostre vite e che non ha rallentato per niente.
Questo perché la finanza non si basa su relazioni faccia a faccia, ma soltanto su operazioni digitali. Potrei fare altri esempi come questi, ma voglio dire soltanto che tutto ciò mi convince del fatto che la globalizzazione stia realmente continuando ad un ritmo considerevole.
Allo stesso tempo ci sono alcuni aggiustamenti nel modo in cui lo stato-nazione ha a che fare con la globalizzazione. Perfino gli stati-nazione che sono sotto una grande pressione per chiudere i propri confini, mettere priorità sulla salute dei propri cittadini, tutti questi stati dipendono da collaborazioni e assistenza tecnica, scientifica, medica attraverso i confini.
Perfino al centro della campagna per sconfiggere il Covid ci sono processi di cooperazione e collaborazione internazionale e globale.
Quindi non penso che la globalizzazione sarà trasformata o rallentata o bloccata dal Covid-19.

Professor Appadurai, ascoltando la sua lista sembra che soprattutto la “parte cattiva della globalizzazione” (lo metto tra virgolette) sia ancora viva. Mi riferisco alla finanza, al commercio delle armi. Sembra così.

Alcune di queste cose ovviamente non sono buone, mi riferisco al commercio di armi, oppure al commercio globale di droga o al traffico di esseri umani, oppure alla sorveglianza cibernetica attraverso i confini. Queste sono cose molto, molto cattive.
Le cose buone, invece, non si sono fermate. Ad esempio la condivisione delle informazioni tra paesi, città, società su come affrontare l’emergenza Covid; oppure la condivisione delle conoscenze tecniche sui dati della malattia, oppure la collaborazione scientifica sui vaccini, sulle cure. Queste sono cose che io chiamerei “la parte buona della globalizzazione”.
La globalizzazione ha sempre delle “parti oscure”, ma allo stesso tempo ha anche delle parti positive, perché fornisce una cornice entro la quale può svolgersi non solo la cooperazione e il commercio, ma il cosmopolitismo, l’espansione dell’immaginazione, tutto ciò per fornire un contrappunto alla xenofobia, al localismo.
In questo contesto la globalizzazione ha entrambe le parti. E in ogni dato momento una parte, una faccia, sembra avere una maggiore nostra attenzione. Oggi con il Covid siamo tutti molto preoccupati sui viaggi, sui migranti, sugli estranei. Ma allo stesso tempo vogliamo le nostre merci consegnate da Amazon, vogliamo restare in contatto con i nostri amici attraverso i social media…Si tratta di cose globali…L’intero genere umano vuole il meglio e chiede che siano altri ad occuparsi del peggio. Ma questa è un’utopia.

Tornerò più avanti sul tema della globalizzazione. Professor Appadurai, che tipo di società sono quelle dell’era Covid-19? A che tipo di trasformazioni sociali stiamo assistendo?

Di nuovo. Si può vedere il bicchiere mezzo pieno oppure mezzo vuoto. La parte mezza vuota è ciò che sappiamo: il Covid ha prodotto una quantità enorme di ansia, timore, incertezza. Ha anche prodotto molta delusione, sia nei confronti dello stato che della scienza, per non aver trovato una soluzione, una soluzione magica.
Inoltre il Covid ha allontanato ciascuno di noi dalle abitudini sociali quotidiane: non possiamo vedere le persone faccia a faccia, non possiamo abbracciarle, baciarle, mangiare comodamente con loro. E’ una situazione che in alcuni posti sta migliorando, leggermente, ma non in altri.
Il costo maggiore è che il nostro principale modo di connetterci tra di noi è stato sospeso. Per coloro che tra di noi hanno tecnologie digitali, allora possono sopperire a questa mancanza. Ma per il 60-70% della popolazione mondiale la tecnologia digitale non è disponibile, e quindi vengono ributtati indietro nelle loro famiglie, nelle loro case, nei loro quartieri. Si tratta di costi sociali molto alti.
Questo è ciò che accade da una parte.
Ma dall’altra parte, se si guarda alla Germania, ma anche all’Italia, alla Lombardia, alla Corea, o a molti altri posti, si vede che lo stato non può fare tutto senza che le persone comuni si diano da fare, partecipino allo sforzo, ad esempio indossando le mascherine, mantenendo le distanze sociali, lavandosi le mani, evitando contatti non necessari con estranei.
Senza tutto ciò l’intero sforzo di combattere il Covid sarebbe fallito in modo disastroso, peggio di quanto successo finora.
E questo significa, ed è la migliora notizia dal punto di vista della società, che su base mondiale la società c’entra (society matters), che non siamo solo creature degli stati o dei mercati o delle élite delle grandi aziende, o degli imprenditori del settore hi-tech, ma che la nostra capacità quotidiana di cittadini ordinari c’entra, che si sia a Bombay o a Milano o in Marocco. People matters, society matters. Noi non viviamo in un mondo fatto solo di stati, aziende e mercati. Questa è una vera buona notizia per me!

Professor Appadurai, in uno dei suoi ultimi libri “Scommettere sulle parole” lei sostiene che il crack economico del 2008 è stato un fallimento (tenete a mente questa parola, ascoltatori/trici) del linguaggio. In che senso?

Nel libro “Scommettere sulle parole” sostengo alcune eterodosse argomentazioni dicendo che naturalmente ci sono altri fattori (regolamentazioni deboli, investitori eccessivamente speculativi, una cura inadeguata della sicurezza e delle preoccupazioni degli investitori ordinari), ci sono molti fattori ma sostengo che un fattore – del quale sono rimasto affascinato – è il linguaggio.
Per me il linguaggio è importante perché è lo strumento principale attraverso il quale funzionano i mercati finanziari globali, ad esempio i derivati.
I derivati sono contratti tra traders che lavorano per banche o fondi speculativi. Sono contratti basati sul valore potenziale di qualcosa nel futuro.
Immagina qualcosa che esiste oggi e che ha un valore futuro: io e te facciamo un accordo perché abbiamo idee diverse su quale sarà quel valore in futuro. E’ una scommessa. Ma quando troviamo l’accordo allora si tratta di un contratto.
È semplicemente un accordo secondo il quale se accade “A” io ti pagherò, se succede “B” tu mi pagherai.
È un contratto scritto, ma prima era orale.
E questo è il modo in cui funziona questo enorme mercato multi-miliardario, attraverso qualcuno che dice a qualcun altro: “bene, l’accordo è fatto!”.
È un atto linguistico, è una promessa, non richiede alcunchè di materiale da scambiarsi a mano, eccetto ciò su cui hai scommesso.

Mi scusi professor Appadurai, ciò significa che il collasso finanziario del 2008 è stato il collasso di questo linguaggio di cui lei parla?

Sì, è il collasso di quegli strumenti che avevano basi linguistiche, resi possibili da promesse costruite su basi molto piccole di beni reali, per esempio le case.
I derivati permettono che una normale casa diventi la base di una serie senza fine di transazioni sul futuro (nella forma di contratti, promesse ed altre forme linguistiche). Ma le case erano limitate, non potevano sopportare il peso di questa montagna di promesse, perchè il valore della case non sale all’infinito.
Tutti lo sapevano, ma pensavano che il crack sarebbe accaduto dopo aver incassato i guadagni.
Un giorno la musica si fermò. Era il 2008. La montagna di promesse si frantumò. Il governo americano dovette intervenire usando denaro pubblico per riempire il buco e ripristinare il mercato finanziario.
Sostenevano che senza il mercato finanziario l’intero sistema capitalistico sarebbe fallito e, fallendo, l’intero pianeta si sarebbe frantumato.
E’ ovvio che queste sono idee esagerate, ma va detto che erano le loro ragioni per salvare il sistema nel quale il linguaggio assume la forma di contratto, promesse (scritte e orali).
Tutto ciò non è secondario, ma è la caratteristica principale dell’assumere rischi di un futuro sconosciuto e monetizzarli.
Ecco dove sta il fallimento del linguaggio.
Il fallimento della finanza può essere visto come fallimento del linguaggio.

Vorrei restare sul tema del linguaggio, professor Appadurai. A proposito del Covid-19 vorrei sapere se lei lo considera un fallimento del linguaggio sociale a vantaggio del linguaggio della scienza biologica. In questi mesi abbiamo dato ascolto principalmente a virologi, epidemiologi, esperti di farmaceutica e abbiamo ascoltato meno gli architetti, gli urbanisti, i designers, etc. C’è stato un fallimento di un linguaggio sociale rispetto ad una lingua bio-scientifica?

Esatto. Direi che sono d’accordo con lei. È un’osservazione molto interessante.
Direi che molti tra i più importanti pensatori in Europa, come Giorgio Agàmben, non sono stati in grado di trasformare le loro idee in una sorta di nuovo pensiero su come affrontare il Covid, su cosa significa, su cosa ci succederà.
Loro guardano il mondo ancora con gli occhi dei decenni passati, delle generazioni precedenti, dei modi di pensare precedenti.
Che si tratti di Agàmben o Zizek, o di altri di altri pensatori europei di primo piano, oppure di pensatori americani come Judith Butler e altri, tutti non sono stati in grado di fornire quel “linguaggio sociale” di cui lei parla e che servirebbe a portarci avanti.
Quindi, lei ha abbastanza ragione.
Come conseguenza abbiamo avuto una notevole esplosione di pronunciamenti scientifici, dibattiti scientifici e informazioni scientifiche che sono state scaricate sulle persone comuni con grande peso, grande velocità e autorità.
Ho scritto altrove di una particolare metrica, numeri, grafici di una enorme complessità che ci hanno sempre affascinati, che non siamo mai stati capaci di comprendere e che non ci ha mai messi d’accordo.
C’è dunque questo travolgente ammontare di cifre scientificamente basate su dati che noi non siamo attrezzati a comprendere.
Di fronte a noi c’è un problema di alfabetizzazione.
Quindi, da un lato sono d’accordo che la scienza contemporanea sia stata la risorsa principale per combattere direttamente il virus come un oggetto fisico.
Questo però non significa che noi comprendiamo tutto ciò che ci viene detto, perchè non siamo istruiti abbastanza per comprendere numeri di tale complessità. Quasi nessuno lo è. Siamo ancora meno attrezzati a comprendere quando ci sono dibattiti fra due scienziati. Come potrò mai esprimere un giudizio quando entrambi quegli scienziati hanno grafici e dati di una tale enorme complessità?
Questo è un grosso problema, l’alfabetizzazione, digitale e scientifica. L’alfabetizzazione su probabilità, proiezioni, numeri. La maggior parte delle persone non ce l’ha.
Dall’altro lato c’è quanto lei indicava, cioè che c’è stata una sorte di “vuoto” dalla parte di ciò che lei ha chiamato “linguaggio sociale” e che io chiamerei in altro modo.
In un mio vecchio libro (“Il futuro come fatto culturale”) ho proposto un contrasto tra “etica della probabilità” e “etica della possibilità”.
Probabilità è la parola nella quale viviamo: numeri, rischi, incertezza, probabilità, proiezioni…si possono usare migliaia di parole, ma sono tutte dalla parte dell’etica della probabilità.
Dall’altra parte abbiamo bisogno di qualcosa di forte, dalla parte dell’etica della possibilità, che è l’etica della speranza, dell’aspirazione, desiderio, immaginazione, ispirazione.
Sono d’accordo con lei completamente nel dire che abbiamo un fallimento relativo da questa parte, cioè dalla parte del linguaggio sociale o del linguaggio delle possibilità che è stato schiacciato dal discorso della probabilità, penso al linguaggio delle scienze mediche e delle scienze correlate.
Noi abbiamo bisogno di queste scienze, ma abbiamo bisogno di un dialogo tra questa lingua e ciò che lei chiama linguaggio sociale. Altrimenti l’intero sforzo diventa unilaterale e noi diventiamo una sorta di consumatori passivi di dati numerici che non comprendiamo; dobbiamo dare la nostra vita a qualcuno che ci dica cosa fare: indossare o meno una mascherina; stare distanti 6 metri e non cinque. Dobbiamo assecondare queste situazioni e ciò non è molto positivo per vite democratiche in salute.
Quindi, sono d’accordo con lei: c’è un fallimento dal lato del linguaggio sociale.

L’idea di futuro che emerge dai suoi studi è un’idea di futuro sempre correlata ad un rischio. “Un futuro su cui possiamo scommettere”, diceva prima. Un meccanismo dei mercati finanziari. Il futuro è solo quel rischio su cui possiamo scommettere o è anche qualcosa d’altro?

Per me è importante che sia anche qualcosa d’altro. Prima dicevo che trasformare il futuro in un rischio, e rendere quel rischio monetizzabile, e poi avere l’1% delle persone che ottiene denaro migliaia di volte superiore al resto delle altre persone, questa è la situazione in cui il futuro diventa solo qualcosa di legato al rischio.
Allo stesso tempo, e in modo simile al caso del Covid, il futuro diventa solamente una proiezione numerica.
Ciò per me non è buono. È ciò che il grande Ulrich Beck ha previsto quando disse che stavamo entrando a livello globale in una “società del rischio”, dove ogni cosa era un rischio, dove le cose che possono accadere possono essere previste e gestite.
Certo Beck non aveva parlato tanto di finanza, ma se oggi analizzassimo la finanza vedremmo che ciò (il rischio) fa parte anche della finanza.
Nel mio libro “Banking on words”, ma anche nel mio libro precedente sul futuro (“Il futuro come fatto culturale”, ndr) ho sempre indicato una critica potenziale a questo tipo di resa completa del futuro a favore di uno scenario di rischio, di una strategia del rischio.
La verità è che – perfino in relazione al rischio – abbiamo dimenticato l’altra parte, che è l’incertezza.
La gente vive molte incertezze. Non dovremmo vergognarci di dire “sono incerto per qualcosa”. Ma dal minuto in cui iniziamo a porre la questione in termini probabilistici, lì vuole dire che abbiamo già cominciato a giocare il gioco del rischio.
Io sono un sostenitore della ricerca di nuovi linguaggi per il futuro, per parlare del futuro, per immaginare il futuro, per discutere nel futuro.
Direi molto semplicemente, e in termini un po’ all’antica, che abbiamo bisogno di prendere in considerazione la qualità tanto quanto la quantità.
Perciò abbiamo bisogno di bilanciare i numeri con altre dimensioni di ciò che è desiderabile nel nostro futuro possibile.
In passato c’è stata un’arena e un discorso che fecero quanto dicevo, ma per molti di noi che oggi sono accademici, o giornalisti come lei, o studiosi o critici, politici…tutto ciò è diventato inadeguato. Questo è il discorso della religione.
La religione in passato parlava di qualità del futuro: redenzione, sopravvivenza, salvezza.
Ma da quando abbiamo perso quel vocabolario, ora la maggior parte di noi ha bisogno di altri vocabolari che possano aiutarci – come cittadini che sono sensibili all’eguaglianza, alla giustizia, libertà e inclusione – a trovare modi per parlare della qualità della nostra vita sociale, delle nostre parole sociali, del nostro paese e del nostro mondo, incluso il pianeta.
Ma se noi ricadiamo sempre sui numeri (quanto si sciolgono i ghiacciai, quanto cresce il livello dei fiumi) c’è un limite a ciò che possiamo fare.
Questo non dovrebbe essere un dialogo sull’utopia, sulle città perfette, sui trasporti perfetti, ma su qualcosa che è attorno a noi, ma non ancora completamente disponibile.
L’espressione “not yet”, non ancora, è quella che ricavo dal filosofo Ernest Bloch, i grandi studi sui principi della speranza.
Bloch usa questa espressione “non ancora”, che significa: qualcosa che è qui, ma non ancora pienamente sviluppata.
Ecco ciò di cui abbiamo bisogno, non l’utopia perfetta, perchè prima di tutto è impossibile e poi perchè diventa velocemente una idea fascista: ci dai tutto, ci dai la tua libertà, e noi ti daremo la perfezione! E’ sempre stata una falsa promessa.
Dunque, ciò è quello che io intendo per qualità e che lei prima definiva in termini di “parte sociale” in opposizione ad una “parte scientifica” del linguaggio.
Tutto ciò è coerente e connesso con i miei desideri e le mie speranze. Troveremo lingue in cui esperti e persone ordinarie possano conversare non tanto attraverso discorsi di alto livello su numeri, grafici, statistiche o finanza, ma attraverso aspetti qualitativi di questioni come il senso della vita, che cosa significa essere felici, cosa significa essere in salute.
Ho usato il termine “social health” (salute sociale) in contrasto al termine “medical health” (salute medica).
La “salute medica” è importante.
Ma la “salute sociale” richiede un altro tipo di attenzione alle relazioni, alla solidarietà, alle reti, che non sta sotto il titolo delle probabilità, dei numeri e delle statistiche.

Fallimento è il titolo del suo ultimo libro. Quando parla di fallimento lei si riferisce a due mondi, Wall Street e Silicon Valley, che “entrambi promuovono l’illusione che la scarsità possa e debba essere eliminata nell’era del flusso senza soluzione di continuità”. Qual è il fallimento che lei analizza, professor Appadurai?

Come sa ho scritto questo libro insieme alla mia coautrice e splendida studiosa Neta Alexander che concentra l’attenzione sul mondo digitale che emerge dalla Silicon Valley.
Poichè io ho studiato di più il mondo della finanza, abbiamo messo insieme le nostre conoscenze e siamo arrivati alla seguente conclusione: uno dei flussi più profondi di questi due regimi, o di queste due forze che arrivano da Silicon Valley e da Wall Street, è che entrambi questi regimi negano qualunque tipo di limite su ciò che possiamo acquistare, di cui possiamo godere, su quanto possiamo essere ricchi….ogni cosa è possibile!
Poi succede che entriamo nei mercati finanziari o nel mondo di Netflix o di Twitter o degli incontri digitali, e diventiamo costantemente o degli sfruttati e impoveriti oppure dei delusi.
In altre parole, le cose buone non accadono dopo tutte le promesse che ogni cosa è possibile, ma il fallimento ci viene trasmesso. Questa cosa è fallita perchè non hai fatto così, perchè non avevi abbastanza banda per connetterti, perchè non hai pulito il computer, perchè non hai imparato questa lingua. Non viene mai detto che la banca o Netflix sono i responsabili.
E poi noi siamo considerati i grimaldelli che tentano di riparare. Ma il processo di aggiustamento non finisce mai. Nel frattempo tutti i fallimenti sono attribuiti ai clienti, ai consumatori, ai cittadini.
E tutte le grandi promesse sono tenute per le persone che controllano le tecnologie hi-tech, le banche, i business digitali.
Loro sono visti come degli alti prelati senza macchia e noi come dei poveri peccatori ai quali è destinato il fallimento.
Noi siamo la causa di ogni fallimento, e loro ci portano tutte le promesse di successo.
Questo è quanto volevamo cogliere nel libro. Spero abbia ricevuto degli elementi di ciò che ho in mente.

(il doppiaggio dell’intervista è a cura di Massimo Bacchetta)

  • Autore articolo
    Raffaele Liguori
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