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Il campo minato bosniaco

Mancano ancora tre anni. Sarà infatti non prima del 2019 che la Bosnia Erzegovina potrà essere dichiarata ufficialmente libera dalle mine antiuomo. Ma non c’è la sicurezza assoluta che questa data sia davvero rispettata. Già nel 2009 le autorità di Sarajevo avevano dovuto spostare il traguardo per altri ben dieci anni.

Queste armi così orrendamente create per colpire, mutilare la popolazione civile, rappresentano ancora un pericolo in 59 Paesi nel mondo e la Bosnia-Erzegovina detiene il non invidiabile record di area più rischiosa in Europa. Nell’ex Repubblica Jugoslava sono stati individuati almeno 19mila campi minati. Che uccidono e feriscono ancora, spiegano a Sarajevo anche perché in questi tempi di crisi sempre più gente si reca nei boschi a fare legna o in cerca di metalli abbandonati. E la Bosnia resta, non dimentichiamolo, uno dei Paesi più poveri del nostro continente, dove lo stipendio medio di un lavoratore si aggira sui 420 euro.

Oggi a 21 anni dalla firma degli accordi di Dayton il Paese sopravvive con il pericolo di avere ancora 2,3 per cento del proprio territorio a rischio, dove si cercano ancora 120mila ordigni portatori di morte. Finora sono stati setacciati qualcosa come 129 milioni di metri quadrati di territorio. Ma non basta. Dal 1996 fino ad ora, 1.674 persone sono rimaste vittime dell’esplosione di mine, uccise o ferite. Si tratta soprattutto di adulti. Ma ora oltre che ai bosniaci, il rischio si estende ancora una volta ai migranti. Ancora in un’altra area geografica martoriata le genti in cammino vengono ulteriormente minacciate. L’allarme arriva proprio dall’agenzia bosniaca responsabile delle operazioni di sminamento. Le zone pericolosissime restano tutti i valichi di frontiera della Bosnia Erzegovina. Le mappe parlano chiaro: le zone rosse sono al confine con la Serbia, lungo i fiumi Sava e Drina e poi con la Croazia nella zona di Brod e Gradiska. A mettere in guardia chi transita in aree pericolose sono dei grandi cartelli che annunciano la possibile presenza delle armi. Ma due anni fa delle alluvioni hanno creato degli smottamenti di terreno che potrebbero aver spostato le mine già monitorate, provocando nuovi rischi per abitanti, soccorritori e certo anche migranti. Le mine portatrici di morte non badano al passaporto.

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“Effetti collaterali. Popolazione civile in pericolo” è la rubrica, a cura di Cristina Artoni, in onda ogni lunedì su Radio Popolare alle 9.20

Ascolta qui la puntata sulle mine antiuomo in Bosnia

La Bosnia minata effetti coll

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    Cristina Artoni
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    Sui luoghi del tulipano selvatico giallo. L’Università di Pavia, con il gruppo di studio del professor Graziano Rossi, sta ricostruendo da Calvigano la presenza storica di questo fiore tipico dell’Oltrepo pavese, ma anche delle zone limitrofe dell’Appennino Piemontese ed Emiliano, e non solo. L’agricoltura intensiva negli ultimi cinquant’anni ha ridotto gli esemplari di questa pianta spontanea della flora mediterranea. Nell’Abc dei Domini Collettivi la professoressa Marta Villa dell’Università di Trento racconta come le proprietà delle comunità difendano e migliorino gli ecosistemi. Un aspetto confermato dalla premiazione di Legambiente per quelle trentine del Monte Bondone alla vigilia dell’Overshoot Day, la giornata del consumo annuale delle risorse rinnovabili dei territori. In Valtrompia, a Villa Carcina, provincia di Brescia, da centoquindici anni c’è la Macelleria e salumeria equina Porta, ci siamo fatti raccontare come sono cambiati i consumi e la produzione, anche per la crescita delle temperature. Nelle Multinazionali del Cibo, queste sconosciute Andrea Di Stefano descrive il mercato del tonno e gli impatti ambientali dell’incremento dei consumi, quindi della pesca. Per Le Storie Agroalimentari Paolo Ambrosoni recensisce il libro Il ritorno della piante di Fabio Marzano, dedicato al verde urbano e al ruolo ambientale, sociale e alimentare delle coltivazioni in città e nelle aree peri urbane. Per gli autori fuori porta, geografie e storia dei paesaggi lombardi del Teatro Franco Parenti, in collaborazione con la Regione Lombardia, l’agricoltore filologo Niccolò Reverdini introduce gli arazzi disegnati dal Bramantino esposti nell’omonima sala al Castello Sforzesco di Milano.

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