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Polizia violenta, il Paese protesta

Al Cairo monta lo sdegno dopo l’ennesimo atto violento e ingiustificato da parte della polizia. Un agente che non era neppure in servizio ha ucciso con la sua pistola di ordinanza un tassista dopo una discussione sul prezzo della corsa. Il poliziotto era andato a far compere con un parente in un quartiere popolare della capitale, poi aveva fermato il taxi e voleva caricare l’auto con gli acquisti, ma senza pagare alcun supplemento. Il tassista che ha osato protestare è stato ucciso con un colpo di pistola sul posto.

La sera stessa, malgrado il divieto di manifestazioni spontanee, una folla si è riunita di fronte al quartier generale della polizia al Cairo gridando “teppisti” e mostrando cartoni con il sangue del tassista ucciso, un giovane di 24 anni. In questo video, le immagini della protesta.

Le autorità sostengono che il poliziotto avrebbe sparato per sbaglio. Avrebbe estratto la pistola per disperdere i passanti che solidarizzavano con il tassista e gli sarebbe partito un colpo. “Il poliziotto è stato malmenato ed è in ospedale”, dicono i suoi capi. “È in arresto e sarà punito”. Ma gli “incidenti” di questo tipo sono ormai troppi e la gente non crede più né alle ricostruzioni di comodo, né alle promesse di giustizia.

Il Financial Times ieri ha pubblicato un articolo in cui sostiene che il presidente al Sisi rischia una rivolta popolare contro il sistema di abusi che ha messo in piedi per reprimere ogni dissenso. Anche la rivolta contro Mubarak nel 2011 fu alimentata dalla rabbia contro gli abusi della polizia. Il simbolo di quella rabbia divenne Khaled Said, un giovane di Alessandria ucciso a botte da due poliziotti perché aveva scoperto che spacciavano droga. Non a caso la rivoluzione del 25 gennaio 2011 iniziò proprio nel giorno della festa della polizia.

Il quotidiano britannico menziona anche il caso di Giulio Regeni, il ricercatore italiano trovato morto con segni di torture su tutto il corpo, prova che l’apparato repressivo non guarda in faccia a nessuno. Secondo il Financial Times, “il governo di al Sisi ha usato la mano pesante con le proteste perché sa che, proprio come la strada ha portato l’esercito di nuovo al potere, lo può spodestare ancora. Potrebbe sembrare che il dissenso egiziano sia stato intimidito, ma l’esperienza della rivoluzione è ancora fresca nella mente delle persone”.

Il coraggio di reagire è testimoniato anche da un altro episodio avvenuto alla fine di gennaio. Due medici di un ospedale del Cairo sono stati picchiati da alcuni poliziotti perché non volevano compilare un falso referto. I due hanno denunciato l’episodio al loro sindacato, che ha indetto una mobilitazione in tutto il Paese. Per protesta oggi manifesteranno i medici ospedalieri in tutto l’Egitto. Dal 27 febbraio cominceranno a curare i pazienti gratis, se gli aggressori in divisa non verranno arrestati. I medici hanno anche chiesto le dimissioni del ministro della Sanità. “Si tratta delle più grandi proteste in Egitto da quando al Sisi è salito al potere”, scriveva ieri il Financial Times.

Forse per paura di un seguito, giovedì Abdel Fattah al Sisi ha annunciato che entro 15 giorni chiederà al parlamento di inasprire le sanzioni contro i poliziotti che commettono abusi. Ma non ha chiarito quali leggi saranno emendate, fa notare la stampa egiziana. In più Sisi ha parlato di “atti irresponsabili di singoli membri delle forze dell’ordine” che “vanno affrontati individualmente”. Il presidente ex militare nega insomma che quello della polizia sia un potere che si regge sistematicamente sugli abusi e sull’impunità.

Eppure le organizzazioni per i diritti umani hanno documentato i casi di almeno 340 “desaparecidos” negli ultimi mesi. Cittadini arrestati che scompaiono nel nulla, probabilmente portati in centri di detenzione segreti. E sistematicamente torturati. Secondo gli attivisti la tortura nelle carceri egiziane non è l’eccezione ma la regola.

  • Autore articolo
    Michela Sechi
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    Fa troppo caldo: scioperano i lavoratori della Emmegi, che costruisce condizionatori a Cassano d’Adda

    Troppo caldo, lavoratori in sciopero. 36 gradi nel capannone dove si producono componenti per i condizionatori. Il paradosso è che, in quella ditta, si producono scambiatori di calore, componente fondamentale per gli impianti di climatizzazione. Che però, nei capannoni della Emmegi di Cassano d’Adda, non ci sono. La conseguenza, temperature roventi, che superano i 36 gradi, e condizioni di lavoro inaccettabili. Per questo lavoratori e lavoratrici stanno scioperando, per ottenere almeno un po’ di refrigerio, che però al momento viene negato dalla proprietà, che anzi ha incaricato un consulente per farsi dire che “la temperatura è acettabile”. Maurizio Iafreni è Rsu Fiom alla Emmegi e responsabile della sicurezza: (foto Fiom Cgil)

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