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“Ridurre le libertà? Il rischio è l’ipocrisia”

È pericoloso e ipocrita ridurre le libertà delle persone, pensando di aumentare la sicurezza, se non si affrontano i motivi economici e politici che hanno reso potente l’Isis”.

Non usa mezzi termini Stefano Rodotà, costituzionalista, ex Garante della Privacy ed ex Presidente dei Garanti per il diritto alla riservatezza dell’Unione Europea. Parole, quelle di Rodotà, in antitesi rispetto a quelle pronunciate nelle stesse ore ieri dal Presidente francese François Hollande: “Le nostre decisioni implicheranno alcune restrizioni alle libertà personali, ma questo è il prezzo da pagare per contrastare il terrorismo”. Rodotà è convinto che la restrizione alle libertà personali per contrastare il terrorismo “sia una scorciatoia, pericolosa per la democrazia e alla fine inefficace contro il terrorismo.

L’ex Garante della Privacy è appena tornato dal Brasile, dove ha partecipato all’iniziativa dell’Onu Internet Governance Forum in cui si è discusso di Cybersecurity, di diritti umani in rete e di difesa dalle potenziali insidie del web. Temi che toccano anche una questione di grande attualità: come l’Isis utilizza il web come strumento di comunicazione, propaganda e reclutamento.

Professor Rodotà, partiamo da una questione che fa discutere: accettare una riduzione o una sospensione di alcune libertà per tutelare meglio la nostra sicurezza. Lei cosa pensa?

Questo è un modo sbagliato di affrontare il problema. Per fortuna, stimolati dalla tragedia di Parigi, abbiamo individuato i motivi economici e politici che hanno reso potente e pericoloso l’Isis: la vendita delle armi a questi terroristi con triangolazioni con Paesi europei, il mancato contrasto al loro finanziamento che avviene attraverso il contrabbando del petrolio, dei reperti archeologici, la tratta dei migranti; gli accordi dell’Isis con Paesi che fanno il doppio gioco, come l’Arabia Saudita, il Qatar, la Turchia. O riusciamo a incidere su tutto questo evitando gravi errori come quelli commessi in Libia – da non ripetere assolutamente in Siria- altrimenti…

Altrimenti?

Altrimenti ridurre le libertà per avere più sicurezza è ipocrita, perché non si affrontano i veri nodi politici ed economici che riguardano l’Isis. Nello stesso tempo si crea un pericolo, perché si limitano le libertà delle persone intervenendo su materie inscindibili dalla democrazia.

Resta però la domanda: visto che siamo sotto attacco, come possiamo aumentare la nostra sicurezza senza penalizzare le libertà? Cosa si può fare concretamente?

Intanto serve un reale coordinamento tra i servizi di sicurezza internazionali, oltre quelle europei. Occorre raccogliere le informazioni e scambiarsele. Invece le agenzie di sicurezza sono molto gelose dei loro ruolo perché detengono un potere nei loro Stati. Ora, di fronte a un attacco dell’Isis, che è quasi globale, hanno minacciato di colpire dopo Parigi, Londra, Washington e Roma, ci vuole una risposta globale, con la condivisione delle informazioni. Altrimenti è inutile promettere una prevenzione efficace contro il terrorismo.

Un’azione che alcuni invocano è la chiusura delle frontiere , mentre la Francia, utilizzando (secondo Jean-Claude Juncker) le norme previste dal Trattato per le situazioni eccezionali, ha sospeso il trattato di Schengen sulla libera circolazione in Europa. Questo dovrebbe permettere un maggior controllo preventivo. Lei cosa pensa?

Non sono d’accordo perché alla fine il grosso rischio è che l’effetto della chiusura delle frontiere lo paghino i profughi, costretti a fuggire dalle guerre. Aumenterebbe la xenofobia, si andrebbe verso l’”Orbanizzazione” dell’Europa (il riferimento è alle politiche anti immigrati del premier ungherese Viktor Orban, ndr). Tutto ciò sarebbe un regalo all’Isis che utilizza anche l’emarginazione dei profughi, la xenofobia, per fare reclutamento. E poi mi permetta di aggiungere una cosa.

Dica…

La propaganda dell’Isis è ben strutturata ed efficace. E nei conflitti la propaganda è importante. Quindi dobbiamo respingere, anche per questo motivo, oltre che per la falsità storica, quelle affermazioni pericolose di chi dice che musulmano equivale a terrorista, a jihadista. Chi sostiene queste cose fa un regalo all’Isis e alla sua propaganda e porterebbe gran parte dei musulmani dalla sua parte. Isolare i profughi sarebbe un enorme errore.

A proposito di propaganda dell’Isis, come si può intervenire secondo lei sul web ?

Non è accettabile violare le nostre comunicazioni personali in nome della sicurezza, ma si può invece puntare molto sul web, per contrastare l’Isis, cercando di identificare i loro siti, tracciare il traffico, tentare di carpire, informazioni sui loro movimenti, contatti. Ma ripeto senza violare la nostra privacy, che ormai ha assunto un aspetto fondamentale della nostra libertà. E anche qui è importantissimo lo scambio di informazioni tra i servizi di sicurezza internazionali. In alcuni casi sono stati chiusi giustamente dei siti jihadisti, ma bisogna valutare caso per caso. Perché non sempre conviene farlo, in quanto poi si spostano su un altro dominio e quindi perdi una fonte di informazione utile per le indagini e ci vuole tempo per recuperarlo. Quello del lotta nel web è una grande sfida che va aggiornata continuamente, con intelligenza e professionalità, cercando di anticipare le mosse dell’avversario. E poi vi invito a riflettere sull’esperienza francese .

Lei parla della “loi sur le renseignement”, legge con cui i provider sono obbligati a installare le scatole nere che passeranno al filtro le attività online?

Sì, la Francia si è dotata a giugno 2015, tra molte polemiche, di una legge molto severa e invasiva sulle forme di controllo del web, una sorta di Patriot Act (legge americana post 11 settembre 2001, ndr), arrivando a prevedere quella che loro chiamano boîte noire, scatola nera, con la possibilità di un controllo permanente dei computer delle persone. Eppure nonostante questo, mi pare, con quello che è accaduto in Francia, che non sia servito molto. E poi guardi anche Michael Walzer (liberal americano, teorico della “guerra giusta”, ndr) ci avverte di non fare gli stessi errori commessi con il Patriot Act negli Usa.

Siamo in guerra? È giusto usare la parola guerra, dopo gli attentati dell’Isis?

Guerra è una parola che ha cambiato significato negli ultimi anni, siamo arrivati anche all’ossimoro di “guerra umanitaria”. Forse oggi possiamo usare il termine guerra con l’Isis, ma ci vuole grande prudenza: il terreno può diventare scivoloso. Perché in questo contesto qualcuno potrebbe volere leggi speciali, l’ applicazione del codice penale e militare di guerra. Noto che lo stesso Governo Renzi sta usando con molta cautela la parola guerra, non parla di leggi speciali, e fa bene.

La Costituzione italiana è nata in un contesto molto diverso, anche per i conflitti, le guerre. Oggi siamo di fronte a situazioni nuove, inedite. Lei crede che dovremmo modificare la nostra carta?

Penso proprio di no. Abbiamo nella Costituzione tutti gli elementi per reagire a una situazione come quella di oggi. La Carta prevede già la possibilità anche di interventi militari per salvaguardare i principi fondativi, come la pace, ma nello stesso tempo ripudia la guerra come risoluzione dei conflitti internazionali.

  • Autore articolo
    Piero Bosio
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    È morta Patrizia Arnaboldi. Femminista, militante comunista, è stata tra le fondatrici di Radio Popolare

    È morta Patrizia Arnaboldi. Aveva 78 anni. Storica militante comunista, protagonista del femminismo a Milano e del movimento studentesco, negli anni Ottanta è stata deputata per Democrazia Proletaria. Legata a Rifondazione Comunista, negli ultimi anni ha partecipato a molte battaglie a difesa della città. Una delle ultime, quella legata agli alberi di piazzale Baiamonti. Patrizia Arnaboldi, 50 anni fa, è stata anche una delle firmatarie, davanti al notaio, dell’atto di nascita di Radio Popolare. Ecco il ricordo di Matteo Prencipe, segretario lombardo di Rifondazione Comunista, e di Basilio Rizzo, storico consigliere comunale milanese.

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    Fa troppo caldo: scioperano i lavoratori della Emmegi, che costruisce condizionatori a Cassano d’Adda

    Troppo caldo, lavoratori in sciopero. 36 gradi nel capannone dove si producono componenti per i condizionatori. Il paradosso è che, in quella ditta, si producono scambiatori di calore, componente fondamentale per gli impianti di climatizzazione. Che però, nei capannoni della Emmegi di Cassano d’Adda, non ci sono. La conseguenza, temperature roventi, che superano i 36 gradi, e condizioni di lavoro inaccettabili. Per questo lavoratori e lavoratrici stanno scioperando, per ottenere almeno un po’ di refrigerio, che però al momento viene negato dalla proprietà, che anzi ha incaricato un consulente per farsi dire che “la temperatura è acettabile”. Maurizio Iafreni è Rsu Fiom alla Emmegi e responsabile della sicurezza: (foto Fiom Cgil)

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    Gaza, ipotesi di tregua tra le bombe d’Israele, con Paola Caridi, giornalista, saggista, esperta di Palestina. La trattativa sui dazi e la debolezza dell’Europa, con Giuliano Noci, prorettore del Politecnico di Milano, editorialista del Sole 24 Ore. Il caso del libro di storia che non piace a Fratelli d’Italia, con uno degli autori del libro, lo storico Carlo Greppi. Milano sempre più cara, chiudono anche i negozi per gli affitti troppo alti: il microfono aperto. Mao Valpiana del Movimento Noviolento ricorda Alex Langer a 30 anni dal suicidio. La quarta puntata di “Racconto Lucano” con Sara Milanese.

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