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Percussioni, dall’Africa all’avanguardia

“Popolare!”, esclama subito Boni Gnahoré quando mi presento e gli chiedo se si ricorda del concerto che aveva fatto a Milano nel 2001, organizzato da una radio… Certo che si ricorda, le migliaia di spettatori che si era trovato davanti in quella Extrafesta gli sono rimaste impresse, ci farebbe la firma a suonare sempre davanti a un pubblico simile.

Boni era arrivato apposta da Abidjan, Costa d’Avorio, con i suoi preparatissimi e versatilissimi musicisti, un gruppo di strumentisti che durante l’esibizione poteva trasformarsi in un ensemble tutto di percussioni e/o in un coro. Invitata da Radio Popolare a venire a Milano a salutare il papà, ad Extrafesta era arrivata anche sua figlia Dobet (nella foto), cantante neanche ventenne che da qualche tempo viveva a Grenoble assieme al compagno francese Colin Laroche de Féline: con lui, un chitarrista che era stato in Costa d’Avorio a studiare gli stili chitarristici africani e che aveva fatto parte del gruppo di Boni, era anche salita sul palco per offrire al pubblico di Extrafesta un paio di brani fuoriprogramma.

Dobet in adolescenza si era formata a Kiyi M’Bock, la scuola- villaggio creata ad Abidjan da Werewere Liking, autrice e regista teatrale camerunese, un centro artistico di grande reputazione – nel quale lavorava anche Boni Gnahoré – con la filosofia di offrire una educazione artistica completa e integrata: musica, canto, danza, teatro, arti figurative… Forte di questa preparazione Dobet, che nel 2001 era ai primi passi della sua carriera, si è rapidamente affermata ed è oggi una delle protagoniste della musica dell’Africa nera più note e apprezzate a livello internazionale, assieme ad artiste come Angelique Kidjo, Rokia Traoré e Oumou Sangaré. E lo scorso anno si è fatta raggiungere in Francia dal padre, che adesso è stabilmente in Europa e fa parte come percussionista del gruppo della figlia.

Boni porta benissimo la sua età, e quando nella serata di apertura – venerdì 1 settembre – della trentaduesima edizione di “Ai confini tra Sardegna e jazz” Dobet nel corso del suo set lo ha presentato, quasi nessuno ha pensato davvero che quel “mio padre” andasse preso in senso letterale e non come un modo di tributargli del rispetto, di dire che Boni era un suo maestro. Sul palco una piccola riunione di famiglia: a rimpiazzare il chitarrista regolare del gruppo era stato chiamato l’ex marito Colin Laroche, che anche lui ricorda quella Extrafesta come una situazione che era stata per loro molto simpatica. Cantante di temperamento, ma capace anche di fornire dei rapidi, folgoranti saggi della sua abilità di ballerina, con la sua padronanza della scena Dobet Gnahoré è in grado con grande economia di mezzi – intorno a lei solo chitarra, basso, batteria e percussioni – di proporre uno show di forte presa oltre che di notevole eleganza. Pubblico nutrito e successo molto caloroso, con la presenza nella piazza del Nuraghe di Sant’Anna Arresi anche di parecchi villeggianti stranieri, nella coda di una stagione turistica quest’anno eccezionale.

Qui un momento dell’esibizione di Dobet Gnahoré:

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Per una edizione che ha voluto rendere omaggio a Max Roach – uno dei grandi jazzmen passati per questo festival – e ricordare la lezione musicale e politica del suo capolavoro We Insist! Freedom Now Suite – una edizione più in generale consacrata alla batteria e alle percussioni – “Ai confini tra Sardegna e jazz” ha pensato bene di prendere le mosse dall’Africa. L’ivoriano Aly Keita, suonatore di balafon, e il chicagoano Hamid Drake, uno dei più straordinari batteristi di jazz in attività, si sono esibiti sia in duo che in trio con Boni Gnahoré e sono anche intervenuti come guest nel set di Dobet.

Il magistero di Max Roach è stato in particolare richiamato da due dei concerti in cartellone. Nel ’70 il grande batterista prese l’originale iniziativa di costituire un ensemble di sole percussioni, il M’Boom. Un complesso di sole percussioni era allora un fatto ancora recente anche nel campo della musica classica contemporanea – Les Percussions de Strasbourg debutta nel ’62 – e il M’Boom nasce lavorando analogamente sulla combinazione di una ampia gamma di strumenti a percussione e su un formato simile (Les Percussions de Strasbourg allineava normalmente sei strumentisti) ma con l’idea di creare un repertorio di brani per percussioni radicato nell’esperienza musicale afroamericana, basato oltre che sulla scrittura anche sull’improvvisazione, e con strumentisti che fossero non solo esecutori ma anche in gran parte compositori, e/o arrangiatori, del materiale.

Questa indimenticata esperienza è stata rievocata da M’Boom Repercussione Ensemble, un progetto coordinato da Joe Chambers, membro originario del M’Boom così come altri due percussionisti presenti nella formazione proposta al festival, Warren Smith e Ray Mantilla. Joe Chambers (classe 1942) ha all’attivo incisioni – solo per fare qualche nome – con Miles Davis, Charles Mingus, Wayne Shorter, Archie Shepp. Il curriculum accumulato da Warren Smith nel corso della sua lunga carriera (è del ’34) è impressionante per ampiezza e varietà: Smith ha inciso in gioventù lavori di Harry Partch e John Cage, è stato in tournée come batterista di Nat King Cole e Nina Simone, ha inciso con Aretha Franklin, è stato direttore musicale di Janis Joplin, ha fatto parte del gruppo jazz-rock Liftime di Tony Williams, ha collaborato con Gil Evans e Charles Mingus, ha lavorato per una vita nei musical a Broadway, è stato un protagonista dell’avanguardia vicino a musicisti come Sam Rivers e Anthony Braxton e continua ad esserlo anche come leader, e se non bastasse compare persino in un album di Van Morrison; la sua partecipazione ad un festival che si è richiamato a Max Roach e alla Freedon Now Suite era poi particolarmente significativa, oltre che per la sua militanza nel M’Boom, anche perché nel ’60 il giovane Smith, invitato da Roach – che gli consigliò di studiare i timpani – fu testimone in studio dell’incisione di We Insist!.

Rinomato percussionista latino, Ray Mantilla (anche lui del ’34) ha inciso fra gli altri con Mingus, Herbie Mann, Ray Barreto, Gato Barbieri. Alle percussioni il M’Boom Repercussion Ensemble proposto da Chambers a Sant’Anna Arresi comprendeva inoltre Eli Fountain, che fu cooptato nel M’Boom di Max Roach in un secondo tempo, e il batterista italiano, ma da molti anni negli Stati Uniti, Diego Lopez. Chambers però non vuole far rivivere pari pari il M’Boom ma rivisitarlo creativamente, e agli strumenti a percussione ha così aggiunto il sax tenore e il flauto di Pietro Tonolo, il contrabbasso di Marc Abrams, e un quartetto d’archi composto da giovani musicisti cagliaritani: l’impiego del quartetto d’archi può essere anch’esso visto come un rinvio a Roach, che aveva costituito un Double Quartet aggiungendo al suo quartetto uno string quartet. L’amalgama funziona, e con geometrie variabili questo organico ha contribuito alla varietà di fisionomia dei brani: in un pezzo di impronta latina come Pomponia, per esempio, il flauto di Tonolo e gli archi sono serviti a dare un fresco tocco di charanga, un formato, caratterizzato da violini e flauti, che fece epoca nella musica cubana, mentre in Landscapes, in cui rimangono solo le percussioni e il contrabbasso, la misura e la lucidità fanno proprio pensare ad un ensemble di musica classica contemporanea.

L’armamentario percussivo comprende xilofono, vibrafono, marimba, campane, batteria, congas e piccole percussioni, e in un brano anche il torace, che i percussionisti si battono con le mani: Chambers è soprattutto al vibrafono, Smith principalmente ai timpani di cui è specialista, e ai quali prende anche un bel assolo, Mantilla stabilmente alle congas, ma ci sono anche scambi di ruolo, in un affascinante gioco di ritmi, timbri, dinamiche. Gli arrangiamenti sono morbidi, con una cifra non banale. Splendido Samba de Maracatu, una composizione di Chambers con una deliziosa melodia. Diversi i brani appartenenti al repertorio storico del M’Boom: It’s Time di Max Roach, Epistrophy di Monk, e Come Back To Me, arrangiamento dell’hit dell’89 della cantante Janet Jackson.

Chambers è anche un ottimo pianista: e in solo al pianoforte si è esibito in un set molto apprezzabile per la limpidezza e l’economia dello stile, l’attenzione agli aspetti melodici e il lirismo asciutto.

Qui Joe Chambers nel 2014 ad Atlanta con lo stesso organico del M’Boom Repercussion Ensemble presentato a Sant’Anna Arresi:

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A Roach è stato poi dedicata la prima delle due esibizioni della Burnt Sugar the Arkestra Chamber, protagonista sabato 9 e domenica 19 delle ultime due serate del festival. La Burnt Sugar, che aveva già brillato a Sant’Anna Arresi nell’edizione del 2005, è stata fondata nel ’99 da Greg Tate, intellettuale afroamericano fra i più noti ma anche chitarrista, e si ispira ad una costellazione di fenomeni musicali che comprende – tanto per citare – il Miles Davis elettrico, Jimi Hendrix, i Funkadelic, i Material, la band nera di hardcore punk Bad Brains, il gruppo rock afroamericano Living Colour. Affascinante ritrovare il mondo musicale di Roach proiettato in questo universo musicale e di sound, iniettato di elettricità, di rock, di black music: con una tavolozza di voci, femminili – Karma Mayet Johnson, Julie Brown, Tamar Kali, Shelley Nicole – e maschili – Mikel Banks e Bruce Mack – con tra gli strumenti la gustosissima chitarra rock di Ben Tyree e le percussioni elettroniche di Val Jeanty (già apparsa qualche anno fa a Sant’Anna Arresi come Val-Inc), Burnt Sugar ha proposto It’s Time di Roach, alcuni momenti di We Insist!All Africa, e, in una interpretazione emozionante, Driva Man e Freedom Day – un paio di brani da un altro album di Roach, Percussion Bitter Sweet, e, pure bellissimo nella veste aggiornata di Burnt Sugar, Throw It Away, uno dei brani più suggestivi composti da Abbey Lincoln, la grande cantante protagonista di We Insist!.

Qui un momento della seconda esibizione della Burnt Sugar:

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(1 – continua)

  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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