Approfondimenti

Di musica di ricerca non ce n’è una sola

L’edizione 2017 della Biennale Musica di Venezia si terrà da venerdì 29 settembre a domenica 8 ottobre: assieme a quelli della Biennale Danza e della Biennale Teatro, il programma sarà annunciato in una conferenza stampa a Roma il 6 aprile.

Nata nel 1930, la Biennale Musica, la cui intestazione ufficiale è Festival Internazionale di Musica Contemporanea, è stata la prima manifestazione ad affiancare l’Esposizione Internazionale d’Arte, creata alla fine dell’Ottocento. Come per le Biennali dedicate alla danza, al teatro e al cinema, pure annuali (diversamente da quelle d’Arte e d’Architettura, che si alternano), la denominazione di Biennale Musica si riferisce non alla cadenza ma all’appartenenza al parco delle manifestazioni dell’istituzione Biennale di Venezia.

Dopo Giorgio Battistelli dal 2004 al 2007 e Luca Francesconi dal 2008 al 2011, dal 2012 la direzione artistica della Biennale Musica è stata assicurata da Ivan Fedele, uno dei più importanti, e affermati a livello internazionale, compositori italiani. Nell’autunno scorso la Biennale ha deciso di rinnovargli l’incarico per altri tre anni.

In attesa del cartellone 2017, gli abbiamo chiesto di parlarci dei suoi orientamenti per le prossime edizioni.

Se stiamo alle stagioni più recenti della Biennale Musica, la prassi è stata di un mandato triennale con una conferma per un quarto anno. Il tuo caso è abbastanza speciale perché, con un mandato iniziale di tre, hai già all’attivo cinque edizioni, a cui adesso si è aggiunta la conferma per un altro mandato triennale.

“Per quanto riguarda la danza e il teatro ci sono state anche in tempi recenti delle direzioni più lunghe, ma per il settore musica effettivamente è particolare. La cosa per me è stata abbastanza inaspettata, e mi ero organizzato tutto questo anno in maniera diversa, pensando di essere libero da incombenze organizzative, e quindi ho anche dovuto spostare alcuni impegni: l’invito a proseguire mi è stato comunicato cinque giorni dopo la fine dell’edizione 2016 del festival, proprio quando aspettavo di sentire il nome del prossimo direttore. Ma le motivazioni che hanno spinto il consiglio di amministrazione e il presidente Baratta a riconfermarmi l’incarico mi hanno toccato particolarmente: si è ritenuto che il mio lavoro di questi anni abbia valorizzato il – come si usa dire – “brand” Biennale, catalizzando una attenzione sempre più viva, e si è attribuito questo risultato alla formulazione dei programmi che, sfociando in particolare nell’ultimo cartellone, si è aperta ad indagare anche altri generi in cui il concetto di ricerca comunque c’è, per quanto in ambiti diversi e non usuali rispetto alla musica molto grossolanamente chiamata “contemporanea”. Questo è un pensiero che io stesso nel tempo ho maturato, e certamente questi cinque anni su questo piano mi hanno portato ad accelerare, ma già da parecchio stavo ripensando proprio l’idea di contemporaneità, non su basi teoriche ma su basi proprio concrete, perché vedevo tante cose interessanti e che considero artistiche e creative in campi che normalmente sono stati considerati soltanto commerciali. Alcuni effettivamente sono esclusivamente commerciali, altri hanno una diffusione commerciale, ma non c’è niente di male a mio avviso, perché anche le sinfonie di Beethoven si vendono…”.

E a volte nel commerciale ci sono cose straordinariamente interessanti e innovative…

“Infatti. E questo mi ha fatto parecchio riflettere anche sull’educazione culturale che io e la mia generazione di compositori abbiamo ricevuto, e mi ha stimolato una curiosità: quella stessa curiosità che avevo quando ero adolescente, sedici, diciassette, diciotto anni, e frequentavo tanti generi, stiamo parlando degli anni settanta, quindi gli anni molto fecondi anche dal punto di vista della ricerca nel pop-rock, nel jazz. Naturalmente siamo alla Biennale, e come a Sanremo non fanno Ligeti, così noi magari non faremo Albano, ed è giusto che sia così: ma certamente mantenendo anche nei prossimi anni una connotazione, quella di un focus sulla musica di scrittura che che continuerà a costituire il grosso della manifestazione, ci sarà anche un’attenzione alla musica non necessariamente di scrittura, ma che fa della sperimentazione e dell’innovazione un motivo forte della propria esistenza”.

Guardando all’ultima edizione si aveva la sensazione, rispetto a parecchie edizioni della Biennale Musica che ho seguito, di una certa vivacità, varietà e apertura, che sembravano proprio preludere a ulteriori aperture: incoraggiate dalla tua conferma…

“Questa apertura si fonda su due considerazioni. Una è la constatazione che di fatto oggi in alcuni ambiti paradossalmente si fa molta più ricerca di quanta non se ne faccia in alcuni ambiti della contemporanea deputata a questo… Penso per esempio alla cosiddetta musica elettronica, che poi è un grande contenitore nel quale ci sta un po’ tutto. L’altra è che il linguaggio è come un fiume carsico che si può diramare, non necessariamente va tutto in un solo letto: la dignità di una ricerca è sempre stata un po’ negata a certi generi, mentre la ricerca è invece un elemento che sta rivenendo fuori, con le nuove generazioni, che stanno ribaltando anche gli stessi stereotipi di quei generi dei quali stiamo parlando”.

Negli anni ottanta ci fu un’edizione della Biennale Musica con una forte presenza del minimalismo; nel 2003 c’è stata la proverbiale edizione diretta da Uri Caine, a baricentro jazzistico: ma in sostanza la Biennale Musica è stata storicamente incentrata sulla ricerca di matrice accademica. Un’anomalia: per esempio se prendiamo la Biennale Arte, ci piaccia o no quello che l’arte contemporanea offre oggi, però effettivamente la Biennale Arte fotografa di più l’insieme di quello che è l’arte contemporanea, o dei trend bene o male dominanti, e non un suo solo ambito.

“Hai perfettamente ragione, condivido, e come dicevo prima l’esperienza della Biennale Musica mi ha portato da questo punto di vista a sviluppare più rapidamente delle convinzioni che evidentemente erano in incubazione. Quelli a cui fai riferimento sono stati momenti di contrapposizione: un festival basato sul minimalismo era – come dire – talmente eterodosso da richiamare di per sé un’attenzione molto forte, come pure l’edizione 2003 di Uri Caine. Io invece farei un passo ulteriore, vorrei fare in modo che le opposizioni, hegelianamente, si spostino su un piano superiore e trovino una loro complementarietà. Sulla base di quali principi possono non confliggere mondi apparentemente staccati ? Quelli della creatività e della sperimentazione, della ricerca, del voler entrare all’interno della materia-suono, seppur formulata con linguaggi differenti. Penso che su questo piano si possano coniugare e rendere complementari istanze che partono da mondi e da sensibilità diversi e anche molto distanti. Certamente a quel livello non tutte le musiche possono arrivare, ci sono musiche che non rispondono all’appello dell’innovazione, della sperimentazione, e della ricerca sui linguaggi. Ma prendiamo per esempio Ryo Murakami (premiato con il Leone d’Argento alla Biennale Musica 2016, ndr): il suo percorso, come quello di tanti altri artisti, è emblematico, perché lui è arrivato ad una musica che ha delle caratteristiche difficilmente definibili, si dice drone ambient, ma la nozione di ambient è un po’ forzata, drone va bene, dei bordoni che si susseguono, anche se non tutta la sua musica è così, perché ce n’è altra che sembra puntillistica. Ma questo ragazzo sei-sette anni fa faceva ancora della house. Mi ha detto: “poi ad un certo punto ho capito che dovevo liberarmi dalla catene del beat”. Per carità, un altro invece col beat ci può fare un capolavoro… Ma questo mi ha fatto molto riflettere: bisogna capire meglio le istanze dell’arte dei suoni, qualsiasi sia il linguaggio che adoperano”.

Con una conferma di tre anni sulla base di un’esperienza ormai lunga alla guida della Biennale Musica hai un orizzonte d’azione piuttosto ampio: naturalmente non puoi fare delle anticipazioni specifiche sul programma, ma cosa ci si può aspettare ?

“La conferenza stampa rivelerà anche un filo rosso, che lega tutta la Biennale. In ogni caso la prossima edizione prenderà le mosse dal prototipo dell’anno scorso: pur con attori diversi, ascolteremo musiche di varie provenienze, e ci sarà anche un concerto pop, con una voce molto particolare. Una particolare attenzione sarà rivolta alle nuove tecnologie, e al concetto di tecniche estese, di strumento aumentato: c’è tutto un fenomeno di compositori, non necessariamente della cosiddetta musica colta contemporanea, che lavorano sulle possibilità, sulle potenzialità di strumenti tradizionali per scoprirne altre, per aumentarle, anche attraverso l’uso dell’elettronica. E una presenza importante avrà il visual: quello del visivo è un aspetto che sta sempre più prendendo piede. All’inizio, una quindicina d’anni fa, quando nei concerti e nei festival si cominciò sempre di più a vedere la musica abbinata ad immagini, magari spesso e volentieri in sovrapposizione, ma in alcuni casi e oggi nella maggioranza dei casi in contrappunto dialettico, beh, confesso che restavo un po’ scettico, perché mi sembrava un modo per far passare la musica attraverso l’immagine: essendo noi più visivi che auditivi, le immagini catturano in qualche modo un’attenzione che consente di metabolizzare meglio linguaggi che magari possono sembrare ostici. E’ un rischio che si corre, ma oggi come oggi invece vedo che l’integrazione tra immagine e suono è sempre più stretta, tanto è vero che si creano dei veri team, o dei duo, di un compositore con un regista o un artista visivo, quando addirittura le due figure non si combinano in una stessa individualità. All’inizio di febbraio, alla Biennale abbiamo tenuto un simposio in cui abbiamo chiamato artisti di varie provenienze, ma soprattutto del visual e della musica, e ricercatori e scienziati, ad intervenire sulla tematica tecnologia/scienza/arte. Le relazioni hanno illustrato quali direzioni ha preso la ricerca scientifica e quali sono state le applicazioni, ma soprattutto, la cosa più interessante, da quali stimoli poetici, estetici, da quali bisogni di espressione la tecnologia è stata influenzata per migliorarsi. Devo dire che ne è venuto fuori un discorso molto stimolante, che poi sarà in qualche modo un po’ anche l’anima delle prossime edizioni. Cercherò anche di incrementare la committenza: il problema è che i maggiori compositori per due-tre anni sono già impegnati, e quindi il lavoro da questo punto di vista non sarà facile però confido nel fatto che potremo realizzare alcune cose interessanti. E avremo molti artisti nuovi: non me ne vogliano quelli che hanno già collaborato con la Biennale e che in qualche modo dimostrano un grande affetto per il festival proponendo anche dei programmi di valore, ma vorrei il più possibile proporre al pubblico esperienze nuove, perché ci sono tanti musicisti che suonano bene i vari generi della contemporanea. Ci saranno anche delle sorprese. Mi sento di dire che il tempo passato alla Biennale non sarà tempo speso male, non sarà un tempo indifferente”.

Non che i periodi precedenti non lo siano stati, ma questo per te è un momento particolarmente ricco di soddisfazioni: ricordo fra l’altro una pagina estremamente lusinghiera di le Monde, in occasione un annetto fa dell’esecuzione a Parigi di alcuni tuoi lavori…

“La Francia è un po’ la mia seconda patria, perché quando ho cominciato a frequentare gli ambienti musicali e culturali francesi, verso la fine degli anni ottanta, ero in un momento di crescita, personale, artistica, che in quell’ambiente ha trovato le condizioni ideali per svilupparsi: e quindi da allora si sono realizzati progetti, si sono strette relazioni di amicizia e professionali molto intense, che hanno retto negli anni, e devo dire che la Francia è un paese che mi ha sempre voluto bene, come artista e penso anche come persona. Al festival Présences di Radio France nel 2016 ho presentato alcuni lavori orchestrali di cui uno commissionato dalla stessa Radio France in co-commissione con l’orchestra filarmonica di Seul. Ma curiosamente negli stessi giorni, per una coincidenza casuale, alla Philarmonie è stata proposta Words and Music, una pièce teatrale per due attori e un ensemble, che Samuel Beckett scrisse nella seconda metà degli anni sessanta, una pièce pensata per la radio, che si è fatta con un minimo di messa in scena. Ce n’era già una versione con musica di Morton Feldman: naturalmente la mia musica è molto diversa dalla sua, che però ho studiato attentamente perché Feldmann lavorò in stretto contatto con Beckett, che sappiamo quanto fosse preciso nelle indicazioni di durate, di apertura piuttosto che chiusura di una scena, quindi studiarla mi è stato utile per capirne un po’ la logica dei tempi, perché sappiamo bene che un testo si può dire in tanti modi. Quello è un lavoro che mi ha dato tanta soddisfazione e che mi piacerebbe che fosse fatto in Italia: vedremo. Adesso sto lavorando ad un ciclo sinfonico che si chiama Lexikon, che alla fine dell’anno verrà proposto nella sua completezza in Russia, ad Ekaterinburg. Poi c’è anche – incrociando le dita – un progetto di opera: oltre a tanta musica da camera, e ad altre cose, un po’ dappertutto. Recentemente a Lubiana c’è stato un festival dedicato alla mia musica, in cui hanno fatto tanti pezzi miei da camera e un concerto sinfonico. E in marzo ho avuto un concerto monografico a New York. Mi è piaciuto anche visitare tanti paesi che non sono così famosi per la produzione e la diffusione di musica contemporanea: sono stato in Estonia, un paese musicalmente avanzatissimo, e anche in Israele, a Tel Aviv, con musicisti straordinari. In effetti è un periodo molto felice, e lo prendo molto volentieri. Dal punto di vista della produttività ho avuto sempre una certa continuità: non per un desiderio di visibilità, perché in realtà non sono uno che ami tanto apparire – però non puoi farne a meno – ma per la voglia di realizzare alcuni progetti. Ne ho alcuni che vorrei concretizzare, un paio teatrali, e poi voglio anche ritornare alla musica da camera perché mi piace moltissimo, soprattutto il quartetto: nei miei ritagli di qualche giorno tra un lavoro finito e un altro da cominciare ho già scritto, senza nessuna commissione, tre movimenti di un nuovo quartetto, perché è una forma che mi piace tantissimo: quando sarà pronto sarà pronto”.

  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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