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Le conseguenze del negoziato

profughi

Tra il primo gennaio e il 9 marzo 2016 sono sbarcati in Grecia, partendo dalle coste della Turchia, oltre 137 mila richiedenti asilo. Quasi duemila al giorno. L’anno scorso il dato era dieci volte inferiore. Basta questo a far capire perché la Turchia ha gioco facile ad alzare la posta in palio per gestire il “problema” migranti. Ankara è il rubinetto che l’Europa spera di chiudere, ora che è stato unilaterlamente deciso che la rotta balcanica non esiste più. Anche se i migranti sono ancora lì.

La bozza di accordo però fa acqua da tutte le parti: non può funzionare. Mentre i migranti sono costretti a viaggi sempre più difficili e a condizioni sempre più disumane, ai confini della fortezza europea si ammassano sempre più persone. E l’onda naturalmente cercherà nuove rotte. Le ultime notizie che arrivano da Idomeni raccontano di profughi che iniziano a cercare alternative. Quale la più plausibile? L’Albania. E da lì l’Italia, come agli inizi degli anni Novanta.

“Non penso che l’Albania diventerà la principale porta d’accesso per i migranti”, spiega il 10 marzo al quotidiano online Euobserver l’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, capo di stato maggiore della Difesa da gennaio 2013 a febbraio 2015. “L’Albania possiede un sistema di controllo delle frontiere molto attento – prosegue l’intervista – e non soffre di immigrazione illegale”. Eppure a Tirana il clima è diverso: il primo ministro Edi Rama a inizio marzo ha detto chiaramente che “l’Albania non aprirà le frontiere ai migranti”. E infatti la polizia ha aumentato i controlli alle frontiere, secondo il sito Balkan Insight. Insomma lo schema si ripete: nonostante le avvisaglie di necessità umanitarie, i Paesi fanno finta che il flusso migratorio di chi fugge dalla guerra in Siria non li riguardi fino a che non si crea un’emergenza. E’ allora che si pretende che Bruxelles trovi soluzioni. A suon di banconote, come nel caso della Turchia, che ha chiesto 6 miliardi di euro per occuparsi dei migranti.

Tutto il sistema potrebbe essere gestito con più coerenza se ci fossero corridoi umanitari ed entrasse in vigore la politica delle quote nei diversi Paesi europei. Ma appunto la pressione migratoria ora è uno strumento politico per mettere Bruxelles alle strette, anche quando si sta fuori dall’Unione europea. Secondo il sito di affari europei Politico.eu è contro ogni logica prevedere, come si legge nella bozza di accordo tra l’Ue ed Ankara, che per ogni profugo trattenuto in Turchia ce ne sia un altro ricollocato nell’Ue a 28. Proprio perché finora questo secondo passaggio è stato impercettibile finora.

Se l’Albania ha tutto l’interesse che il braccio di ferro Ue- Turchia si risolva in qualche modo, c’è chi invece scommette contro l’accordo. Si tratta di Cipro. L’isola, dove da sempre ci sono tensioni tra il governo greco e la comunità turca, ha imposto un veto alla riapertura di cinque capitoli di negoziati per integrare la Turchia nell’Unione. E non ha intenzione di fare passi indietro in questo momento, nonostante da tempo le grandi potenze europee come Francia e Germania spingano perché questo avvenga.. Ma il superamento del niet cipriota è uno degli addentellati dell’accordo. Questa potrebbe essere la pietra tombale al dialogo che ci sarà a Bruxelles il 17 e 18 marzo tra Unione e Turchia.

  • Autore articolo
    Lorenzo Bagnoli
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