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Amadou Balaké, la voce del Burkina Faso

Fra quelle del continente nero, la scena musicale del Burkina Faso è ancora oggi una delle meno visibili a livello internazionale, ma questo non significa che già fin da parecchi decenni fa non abbia anch’essa avuto un rilievo e una sua originalità, e delle figure di riferimento, con una rinomanza non solo in patria.

Il Burkina Faso era ancora la colonia francese dell’Alto Volta quando Amadou Traoré vi nacque nel ’44, a Ouahigouya, nel nord del Paese. Rimasta vedova, nel ’52 la madre si trasferisce con i figli a Ouagadougou (che nel ’60 diventerà la capitale dell’indipendente Repubblica dell’Alto Volta). Amadou frequenta la scuola coranica, ma senza imparare a leggere, allo studio preferendo le percussioni. Poi, appena ragazzino, fa il suo apprendistato come autista a Mopti, in Mali.

Rientrato nel ’59 a Ouagadougou, lavora come manovratore nelle costruzioni, e nel ’61 è uno dei primi taxisti del paese, un’esperienza che vent’anni dopo gli ispirerà Taximan, un grande successo in Africa occidentale. Ma intanto Amadou frequenta i bar dove suonano delle orchestre, comincia ad esibirsi come cantante e la passione per la musica finisce per prendere il sopravvento.

La notorietà fuori dall’Alto Volta di Traoré, destinato a diventare la massima gloria della musica del Burkina Faso, è piuttosto precoce, perché negli anni sessanta comincia la sua carriera proprio come musicista itinerante – cantante ma anche chitarrista e percussionista – in Africa occidentale: non ancora ventenne, nel ’61 lavora come musicista al Grand Hôtel di Bamako, capitale del Mali, e nel ’63 si esibisce per diversi mesi assieme ad un’orchestra cubana ad Abidjan, capitale della Costa d’Avorio.

Nel ’64 poi è in Guinea. In un paese che è allora il faro della musica moderna dell’Africa occidentale, Traoré lavora con diverse formazioni, anche come leader, e il soggiorno è estremamente formativo per il giovane musicista, che proprio per la sua affermazione finisce però per trovarsi in una situazione difficile: il presidente Sekou Touré, che ha rotto i rapporti con la Francia, e che è in polemica con altri presidenti assai più concilianti con l’ex colonizzatore, viene insultato in un discorso dal suo pari grado dell’Alto Volta, e a Traoré, che ha spesso accompagnato col suo gruppo i meeting di Sekou Touré, viene chiesto di prendere le parti del presidente della Guinea contro quello del suo paese, “rispondendogli” con un brano musicale. E Traoré preferisce togliersi dall’imbarazzo (Sekou Touré non è fra l’altro uomo da contrariare) e tornare a casa.

Proprio un successo guineano che al suo rientro in patria nel ’68 ha in repertorio gli vale il suo nome d’arte: i suoi fan cominciano infatti a chiamarlo Amadou Balaké (che si trova scritto sia con una che con due elle) perché vanno in visibilio in particolare quando canta Ballaké, cavallo di battaglia di Bembeya Jazz, negli anni sessanta la formazione di punta della musica guineana, il non plus ultra della modernità e della moda musicale in Africa occidentale. La canzone rende omaggio ad un giovane martire ucciso durante la lotta per l’indipendenza, raccontando della sua fidanzata, che si suicida poco dopo la sua morte. Nei primi anni settanta Demba Camara, il leggendario cantante di Bembeya, fissa poi la propria interpretazione del brano, in cui si rifà allo stile dei cantori tradizionali della Guinea settentrionale, in una incisione che viene pubblicata, dopo la sua tragica morte nel ’73, nell’Lp del ’74 Mémoire de Aboubacar Demba Camara.

In effetti Amadou Balaké può figurare degnamente accanto a Demba Camara fra i cantanti più affascinanti e amati dell’Africa occidentale dell’era delle indipendenze. Un’epoca nella quale Balaké definisce il suo stile a partire dai modelli afrocubani che sono allora tanto popolari nell’Africa francofona così come dagli esempi di modernizzazione della musica mandinga e di altre tradizioni che vengono proposti con grande successo da gruppi come Bembeya Jazz in Guinea e Rail Band in Mali: Balaké canta prevalentemente in dioula (una delle varianti delle lingue mandingo), e in francese, astenendosi in linea di massima dal more, la più diffusa lingua locale del Burkina (che non ritiene di padroneggiare a sufficienza), ma alla miscela di influenze musicali a cui è esposto aggiunge dei ritmi da ballo burkinabé, dando così alla sua musica anche un tocco di identità distinta.

Dopo il rientro in Burkina, per buona parte degli anni settanta Balaké rimane per lo più fermo a Ouagadougou, producendosi via via con tutta una serie di gruppi attivi nella capitale, e aggiungendo nella sua musica altri ingredienti oltre a quelli afrocubani e mandinghi, come l’afrobeat e il rhythm’n’blues. Negli ultimi anni le registrazioni d’epoca di Balaké hanno cominciato ad essere riscoperte e valorizzate dalle etichette che si dedicano al modernariato musicale africano: diversi brani del Balaké anni settanta sono per esempio compresi nella compilation Bambara Mystic Soul. The Raw Sound Of Burkina Faso 1974-1979, pubblicata da Analog Africa.

Balaké registra il suo primo album nel ’76, ad Accra, in Ghana, poi il secondo a Lagos, in Nigeria, e il terzo ad Abidjan, in Costa d’Avorio: in Burkina Faso, paese poverissimo, non c’erano certo molte possibilità per registrare album con degli standard professionali, ma tutte queste capitali, dove l’industria musicale invece era sviluppata, ci dicono anche del respiro della carriera di Balaké. Nel ’79 è oltre Atlantico assieme a Laba Sosseh, cantante del Gambia, e senegalese di adozione, mitico esponente della declinazione africana della musica di matrice afrocubana: Balaké registra due album di salsa con accompagnatori di tutto rispetto direttamente dove questo genere conta degli straordinari specialisti, e cioè a New York. Proprio lavorando con musicisti latini nella Grande Mela, Balaké contribuisce a quella tradizione di rapporto tra musica dell’Africa occidentale e musica di origine afrocubana che poi il produttore Ibrahima Sylla celebrerà dando vita un paio di anni dopo la trasferta newyorkese di Balaké al fortunato gruppo Africando, a cui inviterà poi Balaké ad unirsi. Balaké, che di Africando è stato nel corso degli anni una delle voci più qualificate, compare, accanto ad altri grandi cantanti come Medoune Diallo e Sekouba Bambino, anche nel più recente album del progetto, Viva Africando del 2013.

Fra New York, Parigi e Abidjan fino alla metà degli anni ottanta, poi tornato in Burkina, Balaké ha continuato ad esibirsi regolarmente a Ouagadougou, dove nel 2013 – l’anno prima di mancare a settant’anni di età – con la produzione del giornalista francese Florent Mazzoleni, ha inciso circondato da giovani musicisti l’album, In conclusion, che adesso è stato pubblicato dalla britannica Stern’s. In cui naturalmente non manca una rivisitazione del suo cavallo di battaglia Balaké, ma troviamo anche riproposti altri suoi hit. Bar Konon Mousso è un brano tra funk e afrobeat risalente agli anni settanta, in cui dice la sua sul proprio mestiere, duro, pieno di incerti e all’epoca in Africa circondato da scarsissima considerazione (“un musicista non è nessuno”, dice nel brano una prostituta al musicista). In Fanta, pure risalente agli anni settanta, il protagonista cerca la sua amata, Fanta appunto, e alla fine la trova, in macchina con un altro.

“Nei cimiteri – amava dire Balaké – non ci sono né sale da ballo né belle donne”, e Balaké si è comportato di conseguenza. Ma oltre che alla musica non è stato sensibile solo al fascino femminile e all’alcol: ma anche alla realtà della vita popolare e del mondo che aveva intorno e ai loro cambiamenti, che ha saputo mettere in scena nelle sue canzoni con grande spirito di osservazione e vivacità.

Bar Konon Mousso nella versione originale:

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    Marcello Lorrai
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