Approfondimenti

Libia, guerra per il petrolio

Il paradosso libico. La Libia è un Paese che vive fondamentalmente dall’esportazione del petrolio. E’ anche il Paese africano con maggiori riserve petrolifere. Per poter raggiungere livelli necessari di produzione e commercializzazione sarebbe condizione obbligatoria il raggiungimento di una sicurezza e stabilità politica. Tutti i politici libici e tutte le nazioni straniere interessate lo sanno, ma non si arriva mai ad una sintesi conseguente.

Le esportazioni del petrolio libico sono scese dall’1,6 milioni di barili al giorno del 2010, a 80 mila barili nel 2011 per poi risalire ad 1,3 milioni di barili nel 2012-2013, per poi piombare alle attuali 300 mila barili al giorno. I Paesi importatori sono: al 50% Italia, al 13% Francia e al 13% Cina. Il restante 24% è diviso tra partner minori. Non sono mancate le esportazioni clandestine in cambio di forniture di armi, alcune delle quali sono state bloccate prima che le navi petroliere giungano a Malta o Turchia.

L’accordo tra il Consiglio di presidenza guidato da Sarraj, premier incaricato e sostenuto dall’ONU, e il Parlamento insediato a Tobruk, unica istituzione libica riconosciuta dall’ONU, in merito alla riunificazione dei due enti petroliferi (di Tripoli e di Bengasi) come primo passo verso la pacificazione del Paese ha funzionato sulla carta.

L’essenza del conflitto libico è nel controllo sulle risorse petrolifere. Gli strateghi del sedicente califfato lo avevano capito e hanno sferrato i loro attacchi al centro della Libia, dove risiedono la maggior parte degli impianti di esportazione.

Il pericolo daeshista, malgrado le sconfitte subite, permane a causa delle divisioni tra le forze politiche libiche e la presenza di molte milizie islamiste, con a capo emiri della guerra che si sono nutriti e arricchiti dalla gestione della cosiddetta sicurezza delle istituzioni governative.

Lo scontro per il controllo militare del territorio è auto-alimentato dallo stesso meccanismo che dovrebbe sottostare alla stabilità delle stesse istituzioni. Affidare la sicurezza del premier incaricato Sarraj alle milizie islamiste che avevano condotto il silenzioso colpo di Stato contro il Parlamento eletto non è stata sicuramente una grande idea. I problemi e i limiti della Missione ONU sono provocati dal permanere di divergenze di interessi e di strategie delle potenze occidentali. L‘Italia vuole bloccare i flussi migratori dalle coste libiche e garantire gli investimenti nel settore gas, mentre la Francia aspira ad ottenere migliori condizioni per le concessioni petrolifere nell’Est libico.

Stati Uniti e Gran Bretagna lavorano per mantenere le precedenti posizioni conquistate. La foglia di fico della lotta contro il terrorismo si svela in realtà controproducente, come si è visto per la presenza di truppe speciali britanniche a Misurata e per quella francese nella zona di Bengasi. E’ stata una mossa di lungimiranza politica non spedire, lo scorso marzo, truppe italiane sul territorio libico.

Gli eventi bellici attualmente in corso nel Paese arabo nordafricano sono continui, ma non fanno notizia se non nel caso di morte di soldati occidentali. I centri principale di scontri sono Sirte, Bengasi e Derna. Ma non mancano altri focolai. Come per esempio quello del 25 luglio al valico di frontiera di Ras Jedir, fra Tunisia e Libia. Il Valico è stato chiuso dalla parte libica dopo scontri avvenuti tra gruppi armati per il controllo del punto confine. Secondo il tunisino Business news, a scontrarsi due gruppi rivali: Fajr Libya (Alba della Libia, la coalizione di milizie islamiste che controllano Tripoli) e Amazigh Zouara (milizia berbera della città nord-occidentale libica di Zuara).

La zona principale di conflitto rimane però Sirte, dove le milizie di Misurata, arruolate nell’Esercito libico, stanno tentando la riconquista della roccaforte di Daesh. Sirte è assediata da tre fronti terrestre ed è sotto blocco navale. I circa rimanenti 300 miliziani jihadisti si sono arroccati in sue quartieri, prendendo di fatti la popolazione civile come ostaggi. Nelle ultime 48 ore, le truppe governative hanno perso 34 soldati e circa 200 feriti a causa delle mine disseminate nella zona. Il totale delle vittime tra le forze governative da quando è iniziata la campagna per la liberazione di Sirte – secondo le dichiarazioni del comandante in capo delle operazioni, il generale Mohammed Al Ghosry – è di 338 morti e 1980 feriti.

L’altra città al centro della crisi libica è Derna, prima città conquistata dal falso califfo in Libia. Derna è stata liberata dai daeshisti per cadere nelle mani delle milizie islamiste vicine ad Al Qaeda – Consiglio della Shura dei Mujahiddin – sostenuto con finanziamenti, reclute e armi dalle milizie di Tripoli e Misurata. Derna è assediata dall’Esercito nazionale libico (LNA), guidato dal generale Haftar. L’unico punto di accesso per la città rimane quello del mare. I miliziani impediscono alla popolazione civile di lasciare la città e l’esercito ha rifiutato di togliere l’assedio provocando una crisi umanitaria che richiede un intervento urgente da parte delle istituzioni internazionali. In risposta agli appelli dell’inviato dell’ONU, Martin Kobler, il portavoce dell’esercito nazionale ha imposto come condizione il disarmo della città.

Il capo del Consiglio della Shura dei mujaheddin di Derna, Atiya al Shairi, noto anche con il soprannome di Biqeua, è rimasto ucciso durante uno scontro tra i miliziani islamiste e le forze assedianti.

La terza città libica in stato di guerra è Bengasi. Dopo la sua liberazione da Daesh, per mano delle truppe dell’esercito nazionale, gli jihadisti sono ricorsi alle azioni terroristiche clandestine ed alle azioni di guerriglia urbana. Non occupano più postazioni e sedi fisse, ma sono presenti in alcuni quartieri da dove agiscono nel buio della notte o sparano da auto veloci e fuggono. La stabilizzazione di Bengasi avrebbe dato maggiore prestigio al generale Haftar e quindi i suoi avversari della confraternita Fratelli Musulmani hanno messo in piedi una campagna mediatica per demonizzarlo. L’atteggiamento militarista del generale e la sua alleanza con l’Egitto di Al-Sisi lo hanno isolato nei confronti dell’Italia e Gran Bretagna. Ha invece ottenuto il sostegno della Francia che ha riconsociuto recentemente la presenza di proprie truppe speciali in Libia, in seguito alla morte di 3 ufficiali nella caduta o abbattimento di un elicottero nella località di Maqroun, nei pressi di Bengasi.

La complessità della crisi libica è dimostrata anche dalle interferenze di Al Qaeda. AQIM, il gruppo fedele ad Al Zawahiri, attivo nell’area del Maghreb e del Sahel, ha annunciato il proprio sostegno alle Brigate di Difesa di Bengasi, formazione nata sulle ceneri delle formazioni soccombenti e sponsorizzata dall’ex mufti della Libia, Sadeq Al Ghariani. In una nota diffusa su internet da AQIM, viene elogiata la posizione assunta dall’ex muftì rispetto alla crisi libica.

Della pericolosità della situazione a Bengasi, si è accorto anche il ministro della Difesa del governo di riconciliazione, al Mahdi al Baraghuti, rivale di Haftar, che ha confermato che le Brigate di Difesa di Bengasi rispecchiano l’ideologia di al Qaeda. Va ricordato che questo gruppo armato aveva rivendicato lo scorso 17 di luglio l’abbattimento di un elicottero delle forze LNA, con a bordo militari francesi e libici.

Lo scenario libico non vede all’orizzonte soluzioni positive, sia per la miopia delle classi dirigenti libiche nate dopo la rivolta contro la dittatura, sia per le interferenze straniere di carattere politico e militare, regionali e internazionali. In un recente incontro tra le parti convocato a Tunisi dall’ONU, lo stresso inviato Kobler ha proposto la creazione di tre esercito libici federati in un’unica struttura militare. Una proposta che ha fatto scrivere agli analisti libici di un possibile spartizione del paese secondo interessi stranieri. Nella stampa libica la parola più ricorrente, per definire la fase attuale, è: “Somalizzazione”.

Pensando che la crisi somala risale al 1991-1993, si prospetta un altro quarto di secolo di crisi in Libia.

  • Autore articolo
    Farid Adly
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    Le forme della violenza maschile, dopo il femminicidio di Pamela Genini a Milano e l'omicidio in pieno centro a Palermo di Paolo Taormina. Con Assunta Sarlo, giornalista e saggista, tra le fondatrici del movimento femminista «Usciamo dal silenzio», l’analisi dei diversi “moventi” riconducibili a violenze maschili. Da un lato la cultura patriarcale, l’esercizio maschile del possesso e del dominio sui corpi delle donne che porta ai femminicidi. Dall’altro la violenza omicida praticata per l'affermazione di sé e per costruire un potere maschile dell'intimidazione. Pubblica ha ospitato anche Chiara Saraceno, sociologa della famiglia, sull’educazione sessuale e all'affettività che la destra in Italia vuole bandire dalle scuole elementari e medie e – alle superiori - condizionare ad una firma dei genitori.

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    A cura di Chawki Senouci con Alfredo Somoza

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