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Zen Circus, esce “L’ultima casa accogliente”. Intervista al batterista Karim Qqru

Zen Circus

In occasione dell’uscita del nuovo album degli Zen Circus, intitolato “L’ultima casa accogliente”, il batterista della band Karim Qqru ha commentato a Radio Popolare com’è stato registrare e rilasciare il nuovo LP in un periodo così difficile come quello della pandemia.

L’intervista di Matteo Villaci a Jack.

Il disco esce in un periodo difficile. Come nasce “L’ultima casa accogliente”?

Abbiamo avuto l’opportunità di posticipare l’uscita del disco, ma abbiamo detto di no perché in questo momento la musica prende un peso sempre più reale rispetto a quello che è il bene di conforto. Al di là del discorso economico, a un certo punto la questione è semplice: a noi avrebbe fatto male moralmente posticipare questo album, innanzitutto perché non c’è una certezza del risolversi repentino della situazione, e poi perché ci tenevamo troppo. Il modo in cui è stato creato, pensato, registrato e lavorato era così assurdo che a questo punto farlo uscire in questo periodo è la ciliegina sulla torta, il coronamento della peculiarità totale di come questo disco è stato fatto. La scrittura dell’album è pre-COVID, solamente “Come Se Provassi Amore” è stata scritta dopo il COVID. Avevamo questi brani sui quali stavamo già lavorando e a febbraio ci siamo chiusi due settimane, suonando nove ore al giorno nel nostro studio a Livorno, dove abbiamo fatto un lavoro bello tosto. Poi è arrivato il COVID e ci siamo chiusi a casa però con queste pre-produzioni che eran già qualcosa di più avanzato. A quel punto il disco si è registrato a distanza perché ce lo potevamo permettere dal punto di vista dell’interplay, si era già suonato tanto. Abitando a Forlì non potevo cambiare regione e quindi ho registrato la batteria a Bologna, questo a maggio. A noi questo dico fa stare bene e fa del bene sapere che ora sia fuori e possa essere ascoltato.

Hai ricevuto musica, in un periodo così difficile, che ti ha fatto bene?

Io dico sempre una cosa, che poi è un’esasperazione di un concetto, ma te lo porto come esempio: se rimanessi cieco probabilmente non mi ammazzerei, se invece rischiassi la sordità probabilmente mi tirerei giù dal quarto piano. Credo ci sia un legame coi nostri sensi e che sia personale, ognuno ha il suo, un qualcosa che secondo me parte da qualcosa di ancestrale. La musica, a me e alla band, ha salvato la vita; sembra un po’ cringe come cosa, un po’ imbarazzante perché è la classica frase da documentario strappalacrime sulla band, però non saprei come descrivertela in altro modo. Nel lockdown mi sono andato a riprendere cose che non ascoltavo da tantissimo, ogni settimana rispolveravo dischi tra la mia collezione di vinili. Ho cercato però di stare il più lontano possibile dal web, perché mi sono reso conto che le prime settimane mi stava intossicando.

All’interno del disco, cosa troviamo a livello di percorso degli Zen Circus, di lavoro, anche di ispirazioni?

La cosa particolare del nostro modo di lavorare è che per noi non c’è dietro l’idea del concept alla base, però c’è sempre un fil rouge in tematiche che si ripresentano all’interno delle canzoni, motivo per il quale molto spesso abbiamo registrato molte più canzoni per questo disco, ma ne abbiamo tenute solo nove, perché sentivamo una coesione, oltre che dal punto di vista musicale, dal punto di vista tematico. Noi sentivamo il corpo, il rapporto con esso che è un tema sempre attuale, dai tempi di Parmenide, però lo è davvero anche in questo periodo. Il tema del corpo, della caducità del fisico e della trasparenza è un qualcosa che quando è arrivato il COVID è stato assurdo perché avevamo già scelto il titolo del disco prima, e ci erano venuti dei dubbi ma poi abbiamo deciso di tenerlo, perché questo è stato un periodo in cui molti ragazzi hanno visto la privazione della loro vita precedente e per la prima volta hanno avuto un rapporto con la morte. La cosa che abbiamo notato è che c’è stata un’esacerbazione dell’affermare la propria esistenza attraverso il proprio fisico e i social, c’è stato un momento enorme durante la pandemia quando le persone cercavano di affermare in qualche modo la propria vita con pezzi del proprio corpo. È un dato vero: sono aumentati i selfie di persone nude, anche in generale. Il corpo rimaneva un tema così centrale che poi in un modo o nell’altro è andato a contagiare tutti i brani del disco. Nel rapporto con il proprio corpo, dal punto di vista emotivo, c’è il concetto di malattia, tumore, ma anche le cose belle: fare amore con la persona che abbiamo accanto, sentirsi compatibili con il proprio corpo. Il tema è questo ed è qualcosa che è venuto in modo molto naturale.

Oggi come stanno gli Zen Circus?

Felici. È una cosa che fa quasi paura, ma abbiamo più voglia di suonare ora con vent’anni alle spalle che dieci anni fa. C’è tanta coesione e la felicità per questo disco, ma aldilà di questo ci guardiamo indietro e siamo sempre i tre soliti scappati di casa che si sono montati la testa. Proviamo tanta gioia nello stare insieme, e se ci pensi non è così scontata come cosa.

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    L'abbiamo scoperto con l'EP "Somewhere only we go" e oggi a Volume abbiamo avuto modo di conoscere meglio la storia di questo cantautore nigeriano, che si è poi formato musicalmente in Ghana: "Nel corso degli anni le nostre musiche si sono fuse: l'highlife ghanese, il palm-wine, il folk di Kumasi, il suono contemporaneo della chitarra. Ho potuto unire questi due mondi, mescolandoli con le radio occidentali che ascoltavo da ragazzo". Il risultato è un folk pop pieno di anima e di profondità: "Il mio obiettivo non è solo una carriera internazionale, ma costruire qualcosa in Africa. Voglio creare una struttura che funzioni per artisti come me, gente con una chitarra o un tamburo, artisti contemporanei che non hanno modo di raggiungere il loro pubblico". Ascolta l'intervista di Niccolò Vecchia a Tommy WA.

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    Un percorso attraverso la stratificazione sociale italiana, un viaggio nell’ascensore sociale del Belpaese, spesso rotto da anni e in attesa di manutenzione, che parte dal sottoscala con l’ambizione di arrivare al roof top con l’obiettivo dichiarato di trovare scorciatoie per entrare nelle stanze del lusso più sfrenato e dell’abbienza. Ma anche uno spazio per arricchirsi culturalmente e sfondare le porte dei salotti buoni, per sdraiarci sui loro divani e mettere i piedi sul tavolo. A cura di Alessandro Diegoli e Disma Pestalozza

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    Teatro. La rivoluzione delle "piscinine" milanesi vista da due piccioni in crisi esistenziale

    Teatro. La rivoluzione delle "piscinine" milanesi vista da due piccioni in crisi esistenziale Al Teatro della Cooperativa, a Milano ha debuttato in prima nazionale "Lo sciopero delle bambine", in scena Rita Pelusio e Rossana Mola di PEM Habitat Teatrali, compagnia che porta avanti una ricerca artista che declina contenuti civili e ironia. Lo spettacolo, con la regia di Enrico Messina, racconta una storia avvenuta a Milano nel 1902, quando le “piscinine”, che in dialetto meneghino significa “piccoline”, bambine, tra i sei e i tredici anni, che lavoravano senza diritti, sfruttate e sottopagate, ebbero la forza di scioperare e, per cinque giorni, fermare l’industria della moda della città. A raccontare la vicenda delle piscinine in scena sono due piccioni, due creature che abitano le piazze, le cui parole rispecchiano lo sguardo dei contemporanei, spesso stanchi e disillusi davanti alle sfide della storia. Nella trasmissione Cult Ira Rubini ha intervistato l’attrice Rita Pelusio.

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