
Referendum 8 e 9 giugno, lavoro e cittadinanza. Una quarantina di personalità della ricerca e dell’università hanno lanciato un appello al voto per cinque referendum. L’appello ricorda che i quesiti chiedono di: «Vivere da cittadini», riducendo da 10 a 5 anni il periodo di residenza legale in Italia richiesto per ottenere la cittadinanza italiana ai maggiorenni stranieri; «Vite meno precarie», riducendo la possibilità di usare contratti di lavoro a tempo determinato; «Lavorare senza licenziamenti illegittimi», riducendo le possibilità di licenziamenti senza giusta causa; «Lavorare senza discriminazioni», riducendo le possibilità di licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese; «Lavorare senza infortuni», riducendo i rischi di incidenti e morti sul lavoro.
Ospiti di Pubblica, per parlare di partecipazione, due firmatari/e: Filippo Barbera, sociologo dell’università di Torino e Donatella Della Porta, scienziata politica alla Scuola Normale Superiore di Firenze. E’ arrivato il momento di abbassare la soglia del 50% di partecipazione per rendere valido il referendum? Perchè fallisce la partecipazione? Quanto c’entra la complessità del quesito, la credibilità dei proponenti? «Non possiamo arrenderci all’assenteismo, ad una democrazia a bassa intensità», ha detto il presidente Mattarella per il 25 aprile. Il capo dello stato ha lasciato però inesplorate le ragioni profonde dell’astensione, ragioni che risiedono anche nell’impoverimento sociale, oltre che economico, del lavoro. Ha scritto la studiosa, dirigente dell’Istat, Linda Laura Sabbadini: «Il lavoro non è solo un mezzo per guadagnarsi da vivere: è la base della coesione sociale di un paese».
Filippo Barbera: Il caso del referendum sull’acqua è particolarmente interessante e utile per sviluppare il ragionamento che proponevi, perché il tema della partecipazione richiama direttamente quello della capacità di mobilitazione, e quindi della presenza di corpi intermedi: attori collettivi che si fanno carico di attivare il corpo elettorale in vista del voto.
Quel referendum presentava effettivamente queste caratteristiche: fu una mobilitazione ampia, diffusa e capillare, e non a caso il quorum fu raggiunto.
Si tratta, tuttavia, di un’eccezione rispetto al trend che si è innescato a partire dagli anni ’90.
I referendum attuali non presentano la stessa dinamica, anche perché l’unico quesito che avrebbe potuto attivare un processo di mobilitazione significativa era quello sull’autonomia differenziata, in quanto dotato di quelle caratteristiche collettive che sono necessarie.
Rimanendo sul tema del quorum: cosa pensate? È necessario abbassarlo oppure no?
Filippo Barbera: Abbassare il quorum o intervenire sullo strumento stesso, adeguandolo o differenziandolo in relazione al tipo di quesiti — più o meno mobilitanti e collettivi, come dicevo — sono entrambe opzioni che possono contribuire a facilitare la partecipazione.
Da un lato, si può mantenere lo strumento invariato e semplicemente abbassare il quorum; dall’altro, si possono immaginare strumenti alternativi che perseguano lo stesso obiettivo, ma risultino più adatti ai cambiamenti sociali che si sono verificati negli ultimi decenni.
Donatella Della Porta: Penso che il quorum in Italia sia molto alto — troppo alto — se si vuole davvero utilizzare il referendum come strumento di partecipazione, che è una delle sue funzioni principali. Il referendum serve anche a spostare l’attenzione del dibattito pubblico su un tema centrale che si ritiene non venga affrontato con sufficiente attenzione dai partiti politici.
Con l’attuale soglia di quorum così elevata, i casi in cui si è ottenuto un risultato positivo, cioè il raggiungimento del quorum stesso, sono stati rari. È accaduto solo per pochi temi che avevano già avuto, ben prima del referendum, una vasta diffusione e attenzione grazie all’azione dei movimenti sociali: i temi dell’aborto, del divorzio in passato e, più recentemente, dell’acqua come bene pubblico.
Affinché il referendum possa generare un dibattito pubblico significativo, oltre alla questione del quorum, ci sono altri aspetti che meritano attenzione. Uno di questi riguarda la natura mobilitante e collettiva dei quesiti, ma anche la loro chiarezza.
Il referendum in Italia, essendo di tipo abrogativo, spesso genera confusione: si dice “no” per dire “sì” e “sì” per dire “no”, creando incertezza su cosa effettivamente si vota.
Inoltre, viene percepito come uno strumento debole. Dopo lo straordinario successo del referendum sull’acqua pubblica — tanto in termini di partecipazione quanto di esito, con oltre il 95% dei votanti favorevoli — nella pratica, la privatizzazione del servizio idrico è rimasta pressoché invariata.
Un ulteriore problema del modello referendario italiano è che, trattandosi di un referendum abrogativo, non è chiaro cosa venga proposto in alternativa a ciò che si intende abrogare. Considerando la scarsa attenzione che i partiti hanno generalmente dedicato ai temi referendari, si è spesso assistito a tentativi di evitare, più che applicare, l’esito del voto, proprio perché lo strumento non impone una proposta precisa.