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Violenza urbana: record in America Latina

Rio De Janeiro

Quando si parla di violenza urbana si parla soprattutto di America Latina. Nella lista delle prime 50 città più pericolose al mondo, 43 appartengono al subcontinente americano. Se si aggiungono le 4 città degli Stati Uniti, la quota americana sale al 94%. La misurazione dell’indice di pericolosità si basa sul tasso di omicidi ogni 100.000 abitanti.

Il primato lo detiene Los Cabos, nello Stato messicano della Bassa California del Sud, dove la guerra tra i narcos costa 111,3 morti ogni 100.000 abitanti. Segue Caracas, capitale del Venezuela, con 111,2 omicidi, che detiene il primato per il numero totale di assassinati all’anno: 3387. I due Paesi con il maggior numero di città in questa classifica sono il Messico, con 5 città, e il Brasile, ben 17.

Questi numeri dovrebbero stimolare un dibattito serio sulla caratteristiche dei conflitti contemporanei. Oggi il mondo sta vivendo contemporaneamente un mix di conflitti convenzionali, come la guerra in Siria, di conflitti legati al controllo delle risorse, come quello in corso in Congo, e di conflitti dovuti al collasso sociale, come quelli latinoamericani.

Da tanti punti di vista il Messico è da considerarsi uno Stato fallito, per quanto ufficialmente ancora integro. La conseguenza dell’adesione al mercato Nafta, con gli Stati Uniti e il Canada, è stata la distruzione della piccola e media agricoltura, non in grado di reggere l’urto delle eccedenze statunitensi vendute sottocosto perché sovvenzionate con denaro pubblico. Milioni di contadini (e di ettari di suolo) hanno dovuto trovare una nuova occupazione. Oltre all’esodo di massa verso le città, centinaia di migliaia di produttori si sono riconvertiti alla coltivazione del papavero da oppio o della cannabis. Intanto crescevano il potere di fuoco e la potenza economica dei cartelli della droga.

In Brasile, dopo il successo delle politiche di lotta alla povertà dei governi di Lula, la crisi è tornata a colpire i più poveri, riproponendo lo schema classico di una delle società più polarizzate dal punto di vista sociale.

Ma non sono solo questi Paesi ad avere città praticamente fuori controllo. Le capitali centroamericane sono vittime delle gang importate dagli Stati Uniti, quelle andine e quelle delle pampas sono sempre più insicure. In America Latina, e in parte degli Stati Uniti, la fine degli investimenti sociali, che ha abbandonato al loro destino i più poveri, secondo i dettami delle politiche degli ultimi 20 anni, ha allargato le fasce del disagio. In passato quelle stesse classi partecipavano alle lotte per una maggiore giustizia sociale e spesso erano protagoniste di veri cambiamenti, ma nell’attuale era post-ideologica prevale una visione individuale alla risoluzione dei problemi, fortemente veicolata dai media. E il “si salvi chi può” ha portato alla moltiplicazione esponenziale del crimine, favorito dall’enorme quantità di manodopera disponibile.

Società come quella brasiliana, argentina o colombiana, che per decenni hanno ignorato le gigantesche contraddizioni che si andavano creando in città sempre più frammentante, con i ricchi chiusi nei quartieri privati e i poveri chiusi nella cultura dell’emarginazione, oggi pagano un prezzo altissimo. Quei condomini di lusso separati da un muro dalla miseria spiegano la realtà meglio di un trattato sociologico: ci voleva poco perché gli esclusi tentassero di scavalcare i muri e di prendersi ciò che era loro negato dal destino. Il narcotraffico poi è stato come la benzina sul fuoco, essendo l’unica attività economica moderna e globale di successo a portata di mano dei diseredati. Basta saper sparare e accettare il fatto che non si vivrà a lungo.

Il narcotraffico ha portato ai poveri non solo la droga ma anche le armi. Li ha organizzati militarmente ed eliminato ogni oppositore, arrivando a gestire il voto e a controllare i media. Per questi motivi la violenza in America Latina non è un fenomeno passeggero, ne potrà mai essere combattuta solo con le armi. Le radici della violenza si trovano nella società, cioè nei rapporti economici, nella storia, nella discriminazione etnica e sociale. E i paesi latinoamericane avrebbero urgente bisogno di guardare al proprio interno e di ricominciare da capo.

rio de janeiro

  • Autore articolo
    Alfredo Somoza
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    1) “Gaza brucia di fronte al suo mare, testimone della sua tragedia”. L’esercito israeliano ha lanciato l’offensiva di terra sulla principale città della striscia. L’esodo in mezzo alle bombe. Quasi 90 i morti da questa mattina. (Valeria Schroter) 2) Israele come Sparta. Mentre l’ONU stabilisce che quello in corso a Gaza è genocidio, Netanyahu ammette l’isolamento internazionale e dipinge un futuro di autarchia e guerra permanente. (Anna Foa, Eric Salerno) 3) Gli Stati Uniti continuano a colpire il Venezuela. Trump punta a rovesciare il regime di Maduro con la scusa della lotta al narcotraffico. (Alfredo Somoza) 4) Cinquant’anni fa l’indipendenza della Papua Nuova Guinea. Il paese oggi è vittima della maledizione della ricchezza e rischia di finire ostaggio di un nuovo braccio di ferro tra occidente e Cina. (Chawki Senouci) 5) Spagna, l’estrema destra torna a riunirsi a Madrid. Il primo passo verso una grande alleanza di tutte le destre europee. (Giulio Maria Piantadosi) 6) Rubrica Sportiva. Julia Paternain, la maratoneta uruguayana entra nella storia vincendo la prima medaglia ai mondiali di atletica per il paese sudamericano. (Luca Parena)

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    “E’ stato bello rendersi conto che la figura di Woodie Guthrie è ancora molto viva anche fuori dagli Stati Uniti”, racconta Sarah Lee, nipote dell’icona folk americana. “Le problematiche di cui cantava lui ottant’anni fa sono ancora attuali”, riferendosi al tema dell’immigrazione e alla difficile situazione al confine con il Messico. Con la sua musica Woody Guthrie "affrontava un concetto molto basilare di umanità e speranza, ovvero il trattare le persone come persone, aiutandosi a vicenda nei momenti di difficoltà": lo stesso messaggio che ora le Guthrie Family Singers vogliono portare avanti. Ascolta l’intervista di Elisa Graci alle Guthrie Family Singers.

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    Un percorso attraverso la stratificazione sociale italiana, un viaggio nell’ascensore sociale del Belpaese, spesso rotto da anni e in attesa di manutenzione, che parte dal sottoscala con l’ambizione di arrivare al roof top con l’obiettivo dichiarato di trovare scorciatoie per entrare nelle stanze del lusso più sfrenato e dell’abbienza. Ma anche uno spazio per arricchirsi culturalmente e sfondare le porte dei salotti buoni, per sdraiarci sui loro divani e mettere i piedi sul tavolo. A cura di Alessandro Diegoli e Disma Pestalozza

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