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Uomini che guadagnano più delle donne

In Gran Bretagna la BBC corre ai ripari, dopo la pubblicazione dei dati che dimostrano come le sue dipendenti guadagnino molto meno dei dipendenti maschi, anche a parità di incarico.

L’emittente britannica ha deciso di riesaminare compensi e stipendi di tutto lo staff per ridurre il gender pay gap. Due aziende di consulenza tracceranno entro sei settimane un quadro generale delle disparità di trattamento economico.

L’analisi potrebbe portare al taglio di compensi e stipendi per alcuni e ad aumenti per altri. “Nessuna ipotesi è esclusa”, ha detto uno dei dirigenti della Corporation al quotidiano britannico The Telegraph.

A suscitare scandalo era stata la scoperta che tra le 96 star della BBC che guadagnano oltre 150mila sterline l’anno, 62 sono uomini e appena 34 donne.

Uno dei casi più eclatanti è quello di due giornalisti che presentano entrambi il telegiornale della BBC. Lui, Huw Edwards, guadagna 600mila sterline l’anno, mentre la sua collega Sophie Raworth, che ha esattamente lo stesso ruolo, guadagna un terzo di quella somma.

Il direttore generale della BBC Tony Hall aveva promesso di risolvere il problema delle differenze salariali entro il 2020 e ora ha commissionato un indagine che – assicurano a Londra – sarà indipendente e trasparente. Riguarderà non solo gli anchor della rete, ma tutto il personale, anche ai livelli più bassi.

In Italia il gender pay gap esiste, ma nessuno se ne preoccupa. Secondo il Global gender gap report prodotto dal World Economic Forum, l’insieme delle donne italiane percepisce il 52 per cento dei redditi guadagnati dall’insieme degli uomini.

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“Le donne? Uguali agli uomini, ma costano meno”. Campagna contro il gender pay gap

In nessun paese del mondo si è ancora raggiunta la parità. L’Europa occidentale – regione al mondo più vicina alla parità di genere – registra un gap salariale del 25%. Ma il “buon” risultato si deve ai paesi scandinavi, mentre l’Italia è in fondo alla classifica del gruppo europeo, seguita solo da Austria, Cipro, Grecia e Malta.

Nella classifica mondiale l’Italia si colloca al 50° posto su 144 paesi.

Eppure diversi governi europei si sono attivati per porre rimedio alle differenze salariali. La strategia più usata è quella di rendere pubbliche le remunerazioni, secondo il principio che rendere noto il divario sia di per sé già un incentivo a cambiare.

In Gran Bretagna è entrato in vigore quest’anno l’Equality Act 2010 (Gender Pay Gap Information): le società private con oltre 250 dipendenti devono pubblicare i dati sugli stipendi disaggregati in base al genere.

Lo scorso marzo la Germania di Angela Merkel ha approvato una legge che riguarda le imprese con oltre 200 dipendenti. Dietro richiesta, saranno obbligate a rendere noto ai lavoratori quanto viene pagato un collega per la stessa prestazione lavorativa. Le imprese con oltre 500 dipendenti dovranno anche fornire dei rapporti sul trattamento salariale del personale, evidenziando le differenze fra uomini e donne.

In Islanda (prima nella classifica mondiale) la legge approvata quest’anno è ancora più stringente: le aziende e le istituzioni pubbliche dovranno ottenere una certificazione ufficiale sul rispetto della parità retributiva. I datori di lavoro islandesi devono documentare la situazione, ma dal 2018 partiranno anche i controlli, affidati alla polizia e alla polizia tributaria. In Islanda l’occupazione femminile è attorno all’80%, mentre il divario salariale si attesta tra il 14 e il 20%.

Anche in Italia c’è una legge sulla parità di genere: l’articolo 46 del Decreto Legislativo 11 aprile 2006 n. 198 (ex art. 9 L. 125/91), poi modificato dal D. Legislativo 25 gennaio 2010 n. 5.

Prevede che le aziende pubbliche e private con oltre cento dipendenti debbano produrre un rapporto – almeno ogni due anni – sulla situazione del personale maschile e femminile. Il rapporto dovrebbe riguardare le differenze non solo nei salari, ma anche le differenze in merito ad assunzioni, formazione, livelli, passaggi di categoria/qualifica, cassa integrazione, licenziamenti, prepensionamenti e pensionamenti.

Secondo il Sole 24 Ore il termine per presentare gli ultimi rapporti sulla situazione del personale è scaduto il 30 aprile 2016, ma per ora non ci sono dati disponibili.

  • Autore articolo
    Michela Sechi
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    Violenza stradale, numeri un po' in calo. Il rimedio: l’educazione e diminuire la velocità

    L’Istat ha pubblicato i report sugli scontri stradali, su base regionale (relativi al 2024) e anche alcuni dati sui primi sei mesi di quest’anno. Ci sono meno feriti e meno vittime sulle strade, anche se i numeri restano ancora drammaticamente elevati. Secondo l’Istituto di Statistica nel primo semestre del 2025 i morti sono stati 1310 (si parla di morti per scontri stradali se il decesso avviene entro 30 giorni dall’evento, quindi sono escluse le persone che muoiono, nonostante la causa siano le conseguenze dello scontro, oltre quel limite temporale) contro i 1406 dello stesso periodo dell’anno precedente. I feriti sono stati 111090, anche in questo caso in calo rispetto al 2024, quando erano stati 112428. Gli obiettivi europei sulla sicurezza stradale prevedono il dimezzamento del numero di vittime e feriti gravi entro il 2030 rispetto all’anno di riferimento, che è il 2019. In Italia al momento registriamo una diminuzione del 4,5% (in Lombardia del 12,6). Bisogna ancora fare molto per riuscire a raggiungere l’obiettivo. Uno degli aspetti fondamentali, oltre la diminuzione della velocità, è l’incremento dell’educazione stradale. Stefano Guarnieri, padre di Lorenzo, morto nel 2010 a causa di un omicidio stradale a Firenze ha fondato l’associazione Lorenzo Guarnieri, che da anni si impegna a portare avanti un discorso di educazione. Alessandro Braga lo ha intervistato nella trasmissione Tutto Scorre.

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