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“Uno stato laico dove tutti abbiano pari diritti”. Il sogno di Chris Hedges, dopo il sangue di Gaza

L'ultimo libro di Chris Hedges su Gaza: "Un genocidio annunciato. Storie di sopravvivenza e resistenza nella Palestina occupata"

Chris Hedges, giornalista e scrittore, corrispondente per anni del New York Times in Medio Oriente (Gaza e Egitto). Nel 2002 ha vinto il Premio Pulitzer. Il suo ultimo libro si intitola «Un genocidio annunciato. Storie di sopravvivenza e resistenza nella Palestina occupata (Fazi editore). Il libro – tradotto in italiano da Nazzareno Mataldi – è una denuncia dei crimini del governo israeliano contro i palestinesi a Gaza. Crimini che Hedges definisce genocidio. Scrive a pagina 94: «Il genocidio è il cuore del colonialismo occidentale. Non è esclusivo di Israele. Non è esclusivo dei nazisti. E’ la pietra angolare della dominazione occidentale».
Nell’intervista a Raffaele Liguori, Chris Hedges traccia un sentiero difficilissimo che potrebbe portare alla pace tra israeliani e palestinesi.

Quando è stata l’ultima volta che è stato a Gaza?

La mia ultima volta a Gaza probabilmente risale a circa vent’anni fa. Ho passato sette anni a coprire il Medio Oriente e gran parte di quel tempo ho vissuto a Gaza perché parlo arabo. Quindi è passato davvero molto tempo. La scorsa estate sono stato in Cisgiordania, ma è da molto che non torno a Gaza.

Che tipo di fonti hai usato per scrivere il tuo libro?

Fonti palestinesi, sia a Gaza che in Cisgiordania.
Ho molti amici e colleghi, un gran numero dei quali sono o morti o scomparsi a Gaza. E poi, ovviamente, avendo trascorso così tanto tempo nella regione, conosco intimamente i meccanismi usati dallo stato di apartheid israeliano per sottomettere e controllare i palestinesi.
Quindi, il libro ha cercato davvero di collocare il 7 ottobre e il genocidio che ne è seguito in un contesto storico, in modo che le persone potessero inserirlo in un momento storico ben definito.

“Un genocidio annunciato”, questo è il titolo del tuo libro. Vorrei chiederti: perché hai deciso di definire ciò che sta accadendo a Gaza proprio un genocidio? Cosa hai sentito da Gaza che ti ha portato a usare quella definizione?

Perché ha tutte le caratteristiche di un genocidio, nel senso che mira a sradicare un popolo, totalmente o in parte.
E questo include la cancellazione fisica delle infrastrutture, delle istituzioni culturali, il bersaglio è la società civile in tutte le sue componenti: sanità, università, giornalisti, polizia. E naturalmente i bombardamenti a tappeto su Gaza fanno sì che il 90% degli abitanti non abbia più un posto dove vivere.
Sono senza casa. Il luogo è stato fisicamente distrutto. Quindi credo che, secondo la definizione usata per descrivere un genocidio, qui siano soddisfatti tutti i requisiti.

Tornerò tra poco sulla questione del genocidio, ma prima vorrei chiederti qualcos’altro. Come sai, e come sanno i nostri ascoltatori, un’inchiesta di Haaretz ha raccontato del massacro di civili palestinesi dove si distribuiscono gli aiuti a Gaza. Quel massacro, secondo Haaretz, è stato il risultato di ordini precisi impartiti dai comandanti israeliani ai propri soldati. Le sparatorie erano intese a disperdere la folla, ma hanno ucciso decine di persone. Come ti spieghi queste atrocità dell’esercito israeliano?

Beh, c’era un buon articolo sul quotidiano israeliano Haaretz che ha intervistato, ovviamente, soldati israeliani che hanno eseguito esattamente quel tipo di politica. Finora 580 palestinesi sono stati uccisi mentre cercavano aiuti.
E chiariamo una cosa: questi punti di distribuzione sono solo quattro. Una volta erano 400. Nessuno sostiene che gli aiuti distribuiti siano sufficienti a far fronte alla carestia: 500.000 palestinesi stanno affrontando la fame. È un modo per attirare o spingere i palestinesi verso sud.
Israele, naturalmente, ha ordinato lo svuotamento totale del nord e, per incoraggiarlo, ha lanciato massicci bombardamenti di artiglieria e raid aerei su quei pochi luoghi nel nord dove ancora risiedono palestinesi, voglio chiarirlo, tra le macerie.
Quindi migliaia e migliaia di palestinesi convergono su questi hub di distribuzione che sono aperti solo per un’ora, di solito intorno alle due di notte, ed è il panico. Si arrampicano l’uno sull’altro, si spingono, la gente viene calpestata. Portano coltelli per poter rubare il pacco di cibo di qualcun altro o proteggere il proprio pacco di cibo, che comunque è scarsissimo.
E l’esercito israeliano, insieme ai mercenari che ha assunto per contenere la folla, spara proiettili veri contro la folla. E poi, quando la distribuzione è finita, ricominciano a sparare sulla folla. Non usano gas lacrimogeni. Non esiste alcuna forma adeguata, non c’è nemmeno il pretesto di un controllo della folla. Ed è per questo che abbiamo visto un numero così alto di vittime.
Ma voglio chiarire che non si tratta davvero di fornire aiuti ai palestinesi. Si tratta essenzialmente di usare il pretesto degli aiuti per perpetuare una fame orchestrata e radunare o costringere i palestinesi nel sud di Gaza, in quelli che sono di fatto campi sorvegliati, perché non puoi accedere agli aiuti senza passare attraverso i posti di blocco militari.
E credo che li stiano preparando per la deportazione. Questo è ciò che sta accadendo.

Sei d’accordo sul fatto che l’opinione pubblica occidentale ultimamente abbia cambiato idea, diventando più solidale con i palestinesi man mano che le atrocità contro di loro diventano più esplicite, come ci hai raccontato poco fa?

Sì, lo sappiamo: il 77% dei Democratici americani registrati vogliono un embargo sulle armi verso Israele. Il problema è che le gerarchie, le classi politiche al potere, non hanno alcun interesse a fermare il genocidio e continuano a sostenerlo. Ma l’opinione pubblica negli Stati Uniti e in Europa, come potrebbe non cambiare?
Queste atrocità trasmesse in diretta, giorno dopo giorno, sono di una ferocia inaudita. Dal 2 marzo c’è stato di fatto il blocco di tutti gli aiuti umanitari e alimentari: è barbarie. E i bambini che muoiono di fame, l’assenza di cure mediche, l’acqua non potabile: gli impianti di desalinizzazione sono stati distrutti. Non c’è elettricità e la gente vive accanto a pozze di liquami, bevendo quella roba.
Quindi sì, l’opinione pubblica è sconvolta, ma questo purtroppo non ha cambiato in modo significativo il sostegno totale che soprattutto gli Stati Uniti, ma non solo loro, continuano a dare a Israele con forniture di armi per perpetuare venti mesi di massacri di massa.

Veniamo ora forse alla domanda delle domande: vedi una soluzione per palestinesi e israeliani? C’è ancora tempo per considerare condivisibili i territori del 1948?

No, il problema ora è che la soluzione dei due Stati è stata distrutta da Israele.
Se vogliamo risolverla, visto che Gaza è stata distrutta, bisogna comprendere che il 75% delle persone di Gaza sono rifugiati o discendenti di rifugiati della Palestina storica del 1948, quando furono respinti o cacciati dalle loro terre, poi sequestrate dallo Stato-nazione di Israele, nel 1948 appunto.
Quindi significa che devono tornare a casa. Significa una riconfigurazione dello Stato israeliano in uno Stato laico dove tutti abbiano pari diritti. Voglio dire, questa è l’unica soluzione a questo punto. Non vedo che sta accadendo. Anzi, penso che non ci sia alcun ostacolo al piano israeliano di spopolare Gaza e costringere i palestinesi a lasciarla.
E poi, visto che stanno riuscendo a farlo, stanno già puntando alla Cisgiordania. Voglio dire, 40.000 palestinesi hanno perso la casa, più di 1.000 sono stati uccisi. Il governo israeliano ha distribuito armi automatiche ai coloni israeliani che hanno formato milizie canaglia che entrano nei villaggi palestinesi, incendiano auto, bruciano case e sparano alla gente a volontà, senza alcun ostacolo da parte delle autorità israeliane.
Quindi, vedo che ci stiamo muovendo nella direzione opposta. L’unico modo per fermarlo è una misura coercitiva esterna, un intervento dall’esterno, come accadde nel nord dell’Iraq, ad esempio, quando i curdi furono attaccati dal regime di Saddam Hussein. Lì la comunità internazionale chiese alle forze irachene di ritirarsi sotto il 38° parallelo e istituì una no-fly zone. Dovrebbe essere qualcosa di simile. È l’unico modo, a questo punto, per fermare il genocidio.

Un intervento esterno da parte di chi?

Beh, non vedo nessuno disposto a fare quell’intervento. Se la comunità internazionale obbedisse al diritto internazionale, fermerebbe il genocidio. Non intervenendo per fermarlo, è complice ai sensi della Carta delle Nazioni Unite, della Convenzione sul genocidio e di tutto il resto. Ma non lo facciamo. Parlo da americano, ma anche a nome della maggior parte degli stati europei: non solo non lo fermiamo, ma lo sosteniamo.
Ma se si rispettasse davvero il diritto internazionale, ci sarebbe un intervento che proibirebbe a Israele di continuare il genocidio, proprio come avremmo dovuto fare in Ruanda o come la comunità internazionale fece, infine, in Bosnia dopo i massacri di Srebrenica. E io c’ero, coprii Srebrenica.

La storica italiana Anna Foa sostiene che le politiche del governo Netanyahu stiano portando Israele al suicidio, parla di suicidio politico ed etico. Sei d’accordo?

Sì, direi che ciò che sta portando a questo collasso politico ed etico è una forma di dispotismo. Gli stati dispotici, purtroppo, possono avere una lunga durata. Conosco Foa e rispetto il suo lavoro.
Ilan Pappé, grande storico israeliano, parla di un crollo di Israele entro circa tre anni. Io sarei restio a fissare una scadenza, ma Israele non si riprenderà almeno come stato democratico per gli ebrei. Non è mai stato uno stato democratico per chi non fosse ebreo.
Ma sì, sta seguendo una politica terminale, nel senso che, a causa dei bombardamenti e dei continui attacchi in Libano, Siria e Iran, ha precluso qualsiasi possibilità di una vera soluzione pacifica e si è posto in una condizione di guerra permanente. Non credo che a lungo termine sia sostenibile.
E naturalmente ciò che staccherà la spina, ciò che porrà fine all’egemonia di Israele in Medio Oriente, sarà quando gli Stati Uniti smetteranno di sostenerlo, cosa che potrebbe avvenire, anche grazie al cambiamento dell’opinione pubblica, ma potrebbe non accadere per una generazione.

Nel tuo ultimo libro scrivi che: “Il genocidio di Gaza è il culmine di un processo. Non è un atto. È la conclusione prevedibile del progetto coloniale israeliano”. Puoi spiegare questa affermazione?

Sì, è sempre stato nei piani di Israele quello di prendersi tutta la Palestina storica. Ci sono state enormi campagne di pulizia etnica. Come dicevo, nel 1948 750 mila palestinesi sono stati cacciati dalle loro case. Ci sono state enormi campagne di pulizia etnica nella guerra del 1967: 350 mila palestinesi sono stati spinti fuori dalla loro terra nella Palestina storica. Ma anche tra una guerra e l’altra c’è stata una pulizia etnica lenta, graduale.
Un costante sequestro di terre palestinesi, case palestinesi, e il 7 ottobre ha davvero permesso di accelerare quel processo. Ma questo è sempre stato il piano. Ci sono oltre 700 mila coloni ebrei in Cisgiordania.
Quindi, ciò che abbiamo visto dal 7 ottobre in poi è l’ultimo capitolo di questo piano, lungo sette decenni, per prendersi tutta la terra della Palestina storica.

  • Autore articolo
    Raffaele Liguori
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