
Omri Boehm, filosofo e saggista israeliano e tedesco, insegna filosofia alla New School for Social Research di New York. Il suo ultimo libro si intitola “Universalismo radicale. Oltre l’identità” (Marietti1820).
Omri Boehm è portatore di una proposta per israeliani e palestinesi.
In un mondo segnato da guerre, conflitti e polarizzazioni è possibile pensare in modo universalistico ai diritti umani, senza rintanarsi nei profili ristretti delle identità?
E’ possibile ripensare lo stato e la convivenza su basi di uguaglianza di diritti e umanità condivisa?
Sì, e la Repubblica di Haifa è la risposta di Boehm. Una federazione “per andare oltre l’idea di stato ebraico, oltre “la soluzione dei due-stati”, verso una federazione bi-nazionale” (“Domani”, 16.5.25) o di uno stato bi-nazionale.
A questa conclusione – quella della soluzione due popoli-uno stato – arrivava anche il giornalista e premio Pulitzer statunitense Chris Hedges che abbiamo intervistato un paio di settimane fa, autore di “Genocidio annunciato” (Fazi editore).
Perchè la soluzione “due popoli-due stati” non va bene?
Inizia da qui l’intervista di Raffaele Liguori con il filosofo israelo-tedesco Omri Boehm.
Penso che il problema principale di una “soluzione a due Stati”, in questo momento, sia che non è affatto una soluzione.
Un altro modo per dirlo è chiarire che non è una soluzione capace di offrire la pace.
Quando dico che non è una soluzione, non voglio dire che non sia realistica, perché è vero che anche la “soluzione di uno Stato” al momento non è molto realistica. Piuttosto, anche se ottenessimo la “soluzione dei due Stati”, così come la auspicano i suoi sostenitori, non si tratterebbe di una struttura capace di garantire la pace.
Bisogna capire il motivo.
Non è colpa degli insediamenti, come spesso ci viene spiegato, ma del fatto che nella parte di territorio che va dal fiume Giordano al mar Mediterraneo esiste una maggioranza palestinese, circa 50 e 50, ma con una lieve maggioranza palestinese.
E anche se prendiamo la più generosa delle soluzioni a due stati, questa finirebbe per offrire a tale maggioranza circa il 22% del territorio, per di più in due parti separate: una a Gaza e una in Cisgiordania.
E tutto questo prima ancora di dire una parola sui 700 mila coloni che vivono nel cuore della Cisgiordania.
Per questo motivo, chi propone la “soluzione a due stati” ai palestinesi offre di fatto un compromesso marcio, che non si fonda sull’idea che ci debba essere un accordo per la pace, bensì sull’idea che si possa offrire ai palestinesi un cattivo accordo che devono accettare. E se non lo accettano, allora li si presenta come la parte che rifiuta la pace e, per questa ragione, perde il diritto di avere diritti.
Credo che la logica e la dinamica di questo tipo di proposta non siano quelle di una proposta di pace, ma quelle di uno strumento per negare diritti — ed è proprio ciò che vediamo.
Per questo motivo, anche se l’idea di una federazione tra israeliani e palestinesi in questo momento non è molto realistica, rimane un ideale di pace, un piano per la pace estremamente importante da preservare. La ragione è che la “soluzione dei due Stati” serve a seppellire i diritti dei palestinesi e a proseguire i crimini che stiamo vedendo ora a Gaza. Se restiamo fedeli, invece, all’ideale della coabitazione in una federazione sono altre le azioni da compiere, tutte improntate alla pace e alla convivenza con i palestinesi. Sarebbero state azioni molto diverse da quelle che stiamo vedendo ora. Azioni che quasi tutti i sostenitori della “soluzione dei due Stati” hanno di fatto sostenuto o, quanto meno, non hanno mai criticato apertamente. Non abbiamo visto, ad esempio, David Grossman opporsi a questa guerra negli ultimi due anni. Penso che abbia iniziato un mese o due mesi fa.
La dichiarazione chiara contro i crimini israeliani a Gaza non è venuta dal campo della “soluzione dei due Stati”, ma dal campo molto ristretto di chi sostiene la coabitazione in una federazione o confederazione. Naturalmente ci sono eccezioni, non voglio dire che non ce ne siano, ma come tendenza politica credo che questo faccia la differenza.
Oggi, quali sono i principali ostacoli alla pace?
Beh, ci sono enormi ostacoli che, naturalmente, sarebbe ancora peggio non riconoscere. Il principale ostacolo è l’ostilità che c’è attualmente tra i due popoli. C’è una mancanza di fiducia reciproca. Entrambe le parti considerano la nozione di sovranità nazionale come la condizione “a somma zero” per la propria sopravvivenza. Pensano che, senza sovranità nazionale, sarebbero sterminati o, in ogni caso, privati completamente dei propri diritti.
Penso che questa convinzione sia probabilmente il principale ostacolo.
Inoltre ritengo che il compito sia mostrare che ciascuna parte qui può ottenere l’autodeterminazione, ma senza sovranità: la sovranità finirebbe per essere condivisa. Sarà un processo molto lungo. Penso che attualmente non ci stiamo muovendo in questa direzione, anzi siamo lontani da essa. Non possiamo pretendere che accada presto, ma forse il modo migliore per iniziare a convincere le persone che questo è possibile è iniziare a sviluppare già oggi pratiche che dimostrano che la collaborazione tra ebrei e palestinesi è ancora possibile.
In un certo senso, proprio perché la situazione è così insopportabile e impossibile, tale collaborazione rivela quanto sia radicale, quanto sia unica l’idea che ebrei e palestinesi possano essere amici.
È invece molto pericolosa questa nozione di “bella amicizia”, perché può essere usata e strumentalizzata per trasformare la pace in una bugia, e questo è qualcosa che voglio assolutamente evitare.
Una “bella amicizia” tra ebrei e palestinesi oggi vale poco, a un certo livello.
Ma forse, se l’amicizia esige qualcosa, se l’amicizia tra ebrei e palestinesi esige, per esempio, che io come israeliano rifiuti completamente e mi opponga in modo esplicito e pubblico, in nome di questa amicizia, ad accettare i crimini commessi dal mio governo, forse questo può significare qualcosa come primo passo fondamentale per mostrare cosa significhi per un israeliano guardare ai palestinesi e vederli come cittadini uguali che devono essere protetti come me.
Questo è un primo passo, molto modesto, ma penso che queste siano le pratiche iniziali che possono essere sviluppate già oggi. Speriamo possano poi essere estese a progetti più ampi.
E, ad esempio, come alcuni ricorderanno, siamo entrati in questa crisi del 7 ottobre in un momento di riforme giuridiche in Israele, una sorta di rivoluzione giuridica.
Molti hanno parlato della stesura di una costituzione in Israele come risposta a questa revisione. Io penso che questa costituzione sarebbe stata un’idea pessima.
Sarebbe stata pessima perché l’idea era di scrivere una costituzione per uno Stato ebraico e democratico, senza confini chiari, e senza aver raggiunto alcuna separazione concordata.
Forse un’alternativa avrebbe potuto essere palestinesi ed ebrei seduti insieme a scrivere, se non una costituzione, allora qualcosa come una bozza di documento sulle condizioni minime sotto le quali nessuna costituzione nella regione tra il Mediterraneo e il Giordano sarebbe legittima.
Un atto di scrittura insieme di una costituzione, o delle condizioni di una costituzione, non avrebbe portato la pace da un giorno all’altro. Ma avrebbe almeno creato alcuni dei blocchi iniziali su cui costruire, un giorno, un ponte che permetta davvero di convivere.