
Francesca Buscaglia, antropologa ed educatrice, è l’autrice del libro Etnografie Trap: il potere delle vite immaginate, pubblicato da Agenzia X. Un’indagine che parte dal quartiere milanese di Molise-Calvairate e dall’incontro con un gruppo di minori stranieri non accompagnati, per poi spostarsi in altre zone della città e oltre. Il filo conduttore sono la musica trap e le etichette che le sono state appiccicate addosso, a partire dalla “maranza” al centro del dibattito pubblico negli ultimi mesi. Il libro è anche un viaggio dentro la pratica educativa e i suoi limiti.
Francesca, che Milano hai visto scrivendo questo libro?
La ricerca mi ha portato a osservare i tanti strati della città, grazie soprattutto alla generosità dei ragazzi che ho incontrato. Mi hanno raccontato di relazioni di potere, di contesti che non avrei mai attraversato, forse nemmeno nel mio lavoro di educatrice. Ho visto una Milano fatta di passaggi, di spazi interstiziali, non sempre visibili o rappresentati.
Su quali quartieri ti sei concentrata?
Sono partita da Molise-Calvairate, dove ha sede una comunità di semi-autonomia per minori stranieri non accompagnati. Da lì, mi sono spostata in Barona, San Siro… ma più che i quartieri, sono stati gli attraversamenti a contare: i percorsi, i luoghi informali dove questi ragazzi si incontrano, si riconoscono, si raccontano. In Barona, ad esempio, sono andata perché sapevo che stavano girando un video lì, e ho conosciuto altri ragazzi, anche italiani, come uno di Pavia, che nulla aveva a che fare col background migratorio degli altri ragazzi. Ho incrociato alcuni dei luoghi legati alla messa in scena della trap. I nomi più noti sono Baby Gang, Simba La Rue, artisti con cui si identificano. La trap è una musica che parla direttamente a loro.
Hai incontrato solo ragazzi o anche ragazze?
Solo ragazzi. L’indagine voleva capire proprio quel tipo di appartenenza — musicale, estetica, culturale. Notavo che, una volta arrivati in quartiere, molti si sintonizzavano su certi codici: musica, modo di vestire, linguaggio. Mi chiedevo perché si ritrovassero in quel mondo e non in altri.
Che cos’è la trap per questi ragazzi?
È un luogo di appartenenza, un “noi” non addomesticato. Riguarda i minori stranieri non accompagnati, i ragazzi di seconda generazione, ma anche quelli nati in Italia da genitori italiani. La trap è uno spazio di parola per chi non ne ha. Chi è giovane, chi vive ai margini, ha poco accesso alla parola pubblica, alla rappresentazione. La trap, anche con le sue contraddizioni, offre un palcoscenico — una forma di espressione.
C’è consapevolezza dei rischi che certi immaginari comportano, il filo sottile legale-illegale?
È molto soggettiva. Alcuni ragazzi, soprattutto quelli che vivono sulla loro pelle i rapporti di potere, sono perfettamente consapevoli. Sanno cosa significa camminare per Milano e venire identificati, etichettati, fermati. Per altri, l’uso di certi simboli è meno riflessivo. In alcuni casi c’è una dimensione imprenditoriale nell’uso della trap; in altri, no. Di certo la trap mette in scena tutto questo, spesso in modo esasperato. Come dice la scrittrice filosofa anarcofemminista Virginie Despentes parlando del gangsta rap — e io trovo che valga anche per la trap — c’è una volontà di schernire il potere. Ma resta il dubbio: è una forma di protesta o una trappola? La domanda resta aperta.
Tu sei antropologa ma anche educatrice. Cosa ti ha lasciato questa esperienza, questo muoversi tra questi tuoi due ambiti?
Cercare di capire a quale bisogno di appartenenza risponda la comunità trap mi ha costretta a riflettere su che tipo di appartenenza produce invece il sistema di accoglienza e quindi riflettere sul mio lavoro. La scrittura mi ha fatto vedere il mio lavoro da un altro punto di vista. La trap — che inizialmente mi sembrava distante, disturbante, perfino respingente con i suoi testi sessisti, violenti, consumisti — mi ha permesso di fare “il giro lungo per tornare a casa”.
I minori stranieri non accompagnati arrivano in Italia adultizzati dalle violenze del viaggio (in un’Europa che accoglie i minorenni e respinge gli adulti), ma una volta accolti vengono infantilizzati. Separati dai compagni, respinti se maggiorenni anche solo di un giorno, vivono in una contraddizione costante. La trap risponde a un bisogno vitale: riconoscersi in un “noi” più ampio, diasporico, non addomesticato dalle logiche post-coloniali delle politiche migratorie. È un tentativo di ricucire ferite identitarie provocate da uno sradicamento precoce dal proprio tessuto sociale.