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Turchia, la repressione senza fine

Kocaköy è una piccola municipalità dell’est della Turchia, a una cinquantina di kilometri da Diyarbakır, la capitale simbolica del Kurdistan turco.

Si tratta di una di quelle zone tradizionalmente amministrate da forze politiche curde e dove nelle scorse elezioni di giugno l’HDP, il partito democratico dei popoli, un’emanazione a livello nazionale dei partiti filo-curdi, ha superato il 90 per cento dei consensi.

Nelle elezioni del 1 novembre il risultato è stato simile. Girando per i seggi elettorali di questa zona, minuscole scuole allestite per far votare anche solo 80 persone – che in alcuni casi per raggiungere il seggio hanno dovuto percorrere, a piedi, diversi chilometri – si è presentato uno scenario particolare: fuori dai seggi carri armati e uomini in divisa con i fucili spianati; in alcuni casi, nonostante la legge imponga una distanza minima di 100 metri dal luogo del voto, poliziotti e militari anche all’interno.

Di contro, non solo l’affluenza è stata comunque continua, ma i seggi sono apparsi delle vere e proprie piazze, dove decine e decine di persone si sono fermate a conversare e soprattutto vigilare.

Pochi giorni fa esponenti locali dell’HDP hanno comunque annunciato l’intenzione di contestare per vie legali il risultato del voto in sei città dell’est della Turchia. I conti, infatti, non tornano e le segnalazioni di irregolarità nello svolgimento del voto in queste zone sono innumerevoli.

Non è stato sufficiente dunque il lavoro spontaneo di tantissimi sostenitori dell’HDP e la presenza di osservatori internazionali sparsi per le varie località: non è stato possibile controllare del tutto il voto e in questo senso vanno le dichiarazioni dei due leader del partito la sera delle elezioni, a scrutinio ultimato: “In Turchia non si possono svolgere elezioni giuste e democratiche”.

Le segnalazioni da parte della nutrita delegazione di osservatori internazionali che hanno risposto all’appello dell‘HDP danno la misura di quello che succede nell’est del paese; a parte la militarizzazione del territorio e la presenza intimidatoria di forze di polizia che in alcuni casi si sono arrogati il diritto di cacciare gli osservatori, è stato segnalato di tutto: provocazioni e minacce da parte di membri dell’AKP nei confronti degli scrutatori in varie sedi; nella città di Van , estremo est del paese, la gente che aspettava fuori dalle scuole, per impedire frodi alla chiusura dei seggi, è stata insultata ed attaccata da polizia e squadre operative speciali; in alcuni casi la polizia è intervenuta con gli idranti nel tentativo di disperdere la folla.

In un altro distretto, il volontario che si occupava di fare da interprete per gli osservatori è stato fermato senza motivo e portato alla locale stazione di polizia. In alcuni villaggi dove è particolarmente forte un partito filo islamico vicino all’AKP, sono state descritte figure quali “i guardiani del villaggio”, che raccoglievano le carte di identità degli elettori o intimavano loro di esprimere apertamente il voto. In un particolare quartiere di Diyarbakır, chi si recava al voto anche di primo mattino, lo faceva in compagnia di squadre speciali con il volto coperto.

Nelle zone qui sopra descritte e in altre ancora il giorno del voto c’è stata una calma apparente ma in realtà carica di tensione, che ha mal celato quanto successo fino a qualche giorno prima, ovvero una vera e propria guerra. In teoria, la guerra fra l’esercito e i sostenitori del PKK; in pratica, quella del governo contro l’HDP, i suoi membri, i suoi sostenitori.

La vera campagna elettorale dell’AKP, il partito di Erdoǧan, è stata fatta con le armi.

Sappiamo che a fine luglio di quest’anno la Turchia decide di bombardare tre postazioni del PKK al confine con la Siria: questo provoca il cessate il fuoco unilaterale e da quel momento inizia l’offensiva a 360 gradi in territorio curdo. Con la scusa della ricerca di terroristi di ogni tipo, l’esercito ha invaso, isolato, imposto il coprifuoco, sfollato, intere città del sud est del paese.

Emblematico quanto successo nella città di Cizre, al confine con la Siria e l’Iraq. Il 4 settembre 2015 un provvedimento del governatore della regione ha dichiarato lo stato di emergenza: alla popolazione è stato imposto il coprifuoco 24 ore su 24. Nessuno ha potuto uscire di casa, l’ospedale era chiuso così come tutte le attività commerciali. Niente acqua né corrente elettrica, non funzionanti i cellulari.

E’ stata dunque isolata dal mondo la città che pochi giorni prima, in reazione all’offensiva del governo sul territorio, aveva proclamato l’autogoverno, dichiarandosi autonoma dallo Stato centrale; un assedio di 9 giorni che ha provocato, solo in quella zona, 28 morti e oltre 100 feriti.

Dinamiche molto simili si sono verificate anche in altre città: Yüksekova, Silopi, Silvan, Lice, dove anche i bambini sono morti sotto il fuoco dei cecchini, per l’esplosione delle granate e per i soccorsi non arrivati perché tutto era bloccato.

A Diyarbakır interi quartieri si sono rivoltati e barricati per impedire l’ingresso dell’esercito: i muri crivellati di colpi, gli edifici distrutti, i selciati divelti stanno a testimoniarlo. Alla fine più di duecento civili, far cui 33 bambini , hanno perso la vita in questa caccia al terrorista. La rappresaglia contro i curdi è partita anche dalla popolazione turca, con accoltellamenti, pestaggi, assalti: 190 sedi del partito filocurdo sono state bruciate o distrutte, mentre il governo ha arrestato e rimosso dall’incarico 22 sindaci del’’HDP, per presunta affiliazione con il PKK.

Adesso che Erdoǧan ha ottenuto il suo scopo, c’è da chiedersi come gestirà questo conflitto. Al momento i segnali non sono positivi: immediatamente dopo il voto la Turchia ha ripreso a bombardare postazioni curde, il PKK ha sospeso il cessate il fuoco elettorale, ed attualmente Silvan, città a nord della provincia di Diyarbakir dove diversi quartieri hanno proclamato l’autogoverno, è sotto il duro attacco delle forze speciali. Vige ancora il coprifuoco, il settimo da luglio scorso, e fonti locali denunciano 4 morti e decine di feriti. Come a Cizre, la città è isolata, la gente barricata in casa, le linee di comunicazione sono state oscurate, i militari impediscono l’accesso a chiunque, anche ai giornalisti.

In realtà, dopo averlo deliberatamente interrotto a fini elettorali, è probabile che l’AKP cercherà di riattivare il percorso di pace con i curdi iniziato 3 anni fa, che al momento ha portato a delle concessioni più che altro di facciata. Per farlo, dovrà riprendere le trattative con il PKK, che ha bombardato fino a ieri.

Il PKK sarà disponibile? Difficile dirlo, anche per il movimento curdo non è una decisione facile. I curdi sono stanchi, lo si è visto nelle reazioni al voto: pochi e isolati focolai di protesta a Diyarbakir e in qualche altra città; in tanti non ne possono più di morti, di deportazioni, di coprifuoco. Il fronte potrebbe spaccarsi.

Inoltre, qualora il processo riprendesse, quale sarà l’atteggiamento verso le zone di autonomia curda in Siria come il Rojava? Come conciliare il riconoscimento di elementi di autonomia con il contenimento del confederalismo democratico praticato in Rojava, che la Turchia vede con fumo negli occhi?

C’è un’altra questione, non slegata da quella curda, su cui incombe l’esito di questo voto: la relazione fra Turchia ed ISIS.

In Turchia è ormai evidente che esiste una cellula dell’ ISIS; essa affonda le sue radici negli Hezbollah di Turchia, curdi sunniti integralisti in guerra con i curdi del PKK fin dagli anni Novanta. Alcuni di questi soggetti, tradizionalmente molto violenti, sono passati all’ISIS ed i loro principali nemici sono il PKK, l’HDP, gli sciiti, gli atei, i miscredenti etc.; il governo turco non solo ne ha sottovalutato la crescita, ma in alcuni casi li ha supportati in chiave anti-Assad e anti-curda.

A questo si aggiunga il fatto che per il governo turco è stato fino a poco tempo fa impossibile utilizzare il termine “ terrorista” per un’organizzazione di stampo islamico. Questo per una questione di affinità culturale e perché per lo Stato turco profondo, per la sua pancia, il vero terrorista, il nemico secolare, è il curdo, non il fondamentalista islamico.

Quindi è prioritaria la guerra allo sviluppo dell’identità curda, come sta avvenendo in Rojava, piuttosto che al terrorismo di matrice islamica. Queste lacerazioni della società turca, e le contraddizioni del governo, rappresentano un grosso rischio. Per quanto di mano forte, Erdoǧan non dimostra infatti davvero di avere il controllo della situazione, né gli anticorpi per affrontarla.

  • Autore articolo
    Serena Tarabini
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