
Subito dopo l’attacco ai siti nucleari iraniani, Donald Trump aveva ammonito Teheran. Non scegliete la via della rappresaglia – aveva detto Trump – perché, a quel punto, la nostra reazione sarà durissima. A questo punto, la possibile, probabile decisione di Trump sarà quella di contrattaccare, e, del resto, la base di Al Udeid è la più importante base militare americana in Medio Oriente: ospita dieci mila soldati, è la sede del Comando Centrale degli Stati Uniti, quella che dirige le operazioni militari statunitensi in una vasta fascia di territorio, dall’Egitto a ovest al Kazakistan a est.
Quindi, è un luogo strategicamente e simbolicamente troppo importante per gli Stati Uniti, perché l’attacco iraniano resti senza risposta. C’è da dire che, nelle ore successive agli attacchi di ieri, da Washington era partito un messaggio, destinazione Teheran: non vogliamo la guerra, la nostra è un’operazione limitata ai soli siti nucleari. La stessa minaccia di ieri sera di Trump, quella di un possibile regime change, può essere interpretata come un modo per dissuadere gli iraniani dalla reazione militare.
Trump, del resto, non voleva e non vuole un allargamento del conflitto, che rischia di trascinare gli Stati Uniti in un nuovo conflitto distruttivo – che la base di Trump, peraltro, non vuole. Il presidente aveva anche detto, nelle scorse ore, che con lui non c’era il rischio di un ripetersi del conflitto in Iraq, perché lui possiede molte più qualità strategiche dei suoi predecessori.
E invece, il fantasma dell’Iraq ritorna stasera, ben visibile. Gli Stati Uniti stanno, forse, per essere inghiottiti in un’altra guerra infinita.