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L'Ambrosiano

Lavrov, gli amici, la notte e Dio appeso a una forca nei panni d’un bambino

«Dov’è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che rispondeva: “Dov’è? Eccolo: è appeso a quella forca”». Così Elie Wiesel ha descritto l’impiccagione di tre prigionieri nel lager: due adulti muoiono gridando la loro fede nella libertà e nell’uomo; un bambino che Wiesel chiama «l’angelo dagli occhi tristi» durante l’esecuzione tace. Ho pensato allo scrittore ebreo premio Nobel per la Pace leggendo di Lavrov, che nello spot concessogli da Rete 4 ha venduto il falso degli antenati ebrei di Hitler per colpire Zelenski e buttarla in caciara credendo di evitare responsabilità di Putin e sue. Eravamo aggrappati alla frontiera dell’umano contro il non umano: far memoria degli orrori perché «coloro che dimenticano il passato sono condannati a riviverlo» dice Primo Levi. Ora dal pulpito compiacente delle tv di Berlusconi (il lupo perde il pelo non gli amici) viene alzata l’asticella di nuove barbarie. Tra queste spicca l’ombra d’un potere distruttivo quanto missili e tank perché bombarda la psiche individuale e collettiva, abbatte edifici interiori ricostruiti faticosamente, rompe collegamenti, crea buchi: è il tentativo di riscrivere la storia; mina la credibilità di testimonianze di persone e popoli, infanga dolori, falsa documenti. Indigna che le bugie di Lavrov siano piombate sulla Giornata della Libertà di Stampa, fatta per ricordare chi è stato ucciso mentre esercitava il diritto/dovere d’informare per l’etica sua e la coscienza comune da tener vigile a salvaguardia di libertà e democrazia; per immaginare un ordine mondiale che affranchi dall’impotenza di istituzioni vecchie tipo Onu; perché il fallimento del dio mercato non travolga i diritti; si smaghino le sgrinfie di autocrati, autoreferenzialità, simmetriche rivalse. Sono molti gli “angeli dagli occhi tristi” oggi appesi a forche: bambini uccisi e traumatizzati in Ucraina e in altre guerre, ritrovati morti sulle rive dell’Egeo o inghiottiti dal Mediterraneo, figli e nipoti ai quali tra Covid, guerra, disastri ambientali stiamo rubando il futuro. O si reagisce e si cambia o finiamo per impigliarci noi nel cappio con un Dio che soffre per guerre e libertà perduta: neanche lui può far nulla se a nostra volta siamo bambini tra grandi che decidono per noi.

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Mia cara Olympe

Aborto: l’eterna mannaia sul corpo delle donne

Il mio primo, immediato pensiero, ascoltata la notizia, è stato: non si stancano mai. Non si stancano mai, ci provano di continuo ora qui e ora lì, in tutto il mondo. E spesso ci riescono. Stavolta, a calare nuovamente  la mannaia sul corpo e sulla vita delle donne, racconta lo scoop di Politico, è la Corte suprema americana: se la bozza della decisione dell’organismo, che grazie alle nomine di Trump  è in salde mani repubblicane, verrà confermata in metà degli Stati Uniti non si potrà abortire o verrà fortemente limitata la possibilità di farlo. Un salto indietro di 50 anni, al 1973, a quella ormai famosa sentenza Roe vs Wade che a livello federale  garantisce l’interruzione di gravidanza.
Non si stanca mai il fronte antiabortista e quanti di questi tentativi, a diversi livelli di gravità, abbiamo visto agire negli anni: in Italia dove siamo scese in piazza ancora e ancora per rintuzzare gli attacchi alla 194, e poi in Spagna, in Polonia, in Brasile, in più di uno stato americano, ultimo l’Oklahoma, dove il  governatore repubblicano Kevin Stitt ha tramutato in legge il divieto di aborto dopo la sesta settimana. Talvolta abbiamo vinto, altre perso, tutte siamo state noi a dovere, di nuovo e ancora, scendere in piazza.

Il titolo della Stampa di oggi 4 maggio è azzeccato: ‘Aborto, Medioevo americano’.  E si potrebbe aggiungere infinito Medioevo, perché mai si ferma l’ossessione maschile per la libera scelta delle donne, che saldando istanze religiose, di destra, tradizionaliste e identitarie dalla Russia di Putin agli Stati Uniti fa prosperare i movimenti pro life.  Sul Corriere della sera e sulla Stampa, oggi una madre e una figlia sembrano parlarsi a distanza: sono Erica Jong, l’autrice di Paura di volare, e sua figlia, l’analista politica Molly Jon Fast: immagino il suo sconforto, dice la seconda, se è triste per noi che con questo diritto siamo nate, è atroce per chi ha molto combattuto per ottenerlo. Atroce, atroce è la mannaia che cade sulla testa di tutte, delle madri e delle figlie perché a tutte manda a dire che i nostri diritti non sono per sempre, che la nostra libertà è continuamente sotto scacco e va contrattata e difesa. Ad alcune poi farà più male che ad altre: alle donne povere americane che hanno la sventura di vivere negli stati repubblicani, che non possono permettersi di assentarsi dal lavoro per andare nello stato che l’aborto consente, che non hanno né soldi né tempo. E non è difficile capire cosa faranno: metteranno a rischio la loro salute pur di interrompere una gravidanza che non vogliono e che siano i  ‘consigli’ di Internet e non i ferri da calza di una volta non consola. Ingiustizia che si somma a ingiustizia, diseguaglianza che si somma a diseguaglianza.

Forse, dicono gli osservatori, la bozza resterà tale, forse a farla uscire sono stati i democratici e proprio per provocare una reazione e stopparla, forse i repubblicani sbagliano a esultare perché questa vicenda si ritorcerà loro contro. Forse, ma il dato resta: nel maggio del 2022 c’è ancora bisogno di lottare  contro la crociata oscurantista sulla nostra libertà, madri e figlie, donne e, si spera, uomini. Questo attacco riguarda anche loro.

 

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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Appunti sulla mondialità

Guerra, fame e terra

Il conflitto ucraino ha ormai superato i due mesi di durata e ancora non se ne vede la fine. La meno considerata tra le ricadute negative della guerra sull’economia globale riguarda la sicurezza alimentare. In primavera nelle campagne ucraine si seminano il grano e il girasole, fondamentali per sfamare circa 400 milioni di persone nel mondo, soprattutto in Africa. I prezzi di queste materie prime vitali sono già raddoppiati rispetto a un anno fa, ma le conseguenze dell’uscita dal mercato di uno dei massimi esportatori mondiali sono destinate a farsi molto più pesanti. Questo perché l’agribusiness mondiale dipende da un numero sempre più ridotto di Paesi in grado di produrre grandi surplus di grano, soia, mais, riso, carne: alcuni degli storici esportatori, come l’Australia e il Brasile, da alcuni anni sono regolarmente colpiti da fenomeni meteorologici estremi, dovuti al cambiamento climatico; a ciò si aggiungono ora i disordini geopolitici, e il quadro complessivo della sicurezza alimentare planetaria diventa così sempre più fragile.

Si tratta, però, di una debolezza che ha origini antiche, risalenti al progressivo esproprio di terre e di colture su scala mondiale iniziato con il colonialismo. L’agricoltura da piantagione inaugurata nel XVI secolo, responsabile di scempi ambientali e della schiavitù degli africani, trasformò le terre espropriate ai popoli originari di America e Africa in latifondi, in gran parte gli stessi che oggi sono proprietà di grandi multinazionali.

Nel tempo la questione della terra, risalente all’inizio della prima globalizzazione, è diventata il motore di rivoluzioni e di lotte contadine e sindacali. Tra tutti i movimenti che, negli ex Paesi coloniali, si sono battuti per la riforma agraria spicca quello dei Sem Terra brasiliani, nato negli anni ’80 con le occupazioni di latifondi improduttivi. I lavoratori agricoli “senza terra”, oggi 600.000 famiglie, non hanno solo lottato per avere diritto alla terra in uno dei pochi Paesi in cui non c’è mai stata una riforma agraria, ma hanno anche dato vita a comunità rurali in cui le donne hanno pari diritti e doveri, e in cui si pratica un modello di condivisione del lavoro e della vita comunitaria che non ha precedenti al di fuori del mondo indigeno.

Anche i Sem Terra fanno parte del vasto movimento mondiale che si batte per il ritorno a un’agricoltura con agricoltori: il contrario del modello dominante, che è invece quello di un’agricoltura sempre più transgenica, industrializzata e meccanizzata, che non ha bisogno di manodopera umana.

Proprio gli uomini e le donne che si battono per la terra e per il diritto alla terra sono stati, e sono tuttora, le vittime più numerose degli scontri nell’era della nuova globalizzazione. E non solo in America Latina, dove Brasile e Colombia detengono il triste primato di violenze e omicidi ai loro danni, ma anche in Africa, dove si lotta contro il land grabbing, e in Asia, dove il presidente indiano vorrebbe dare mano libera all’agricoltura industriale, a discapito dei 700 milioni di persone che vivono di agricoltura familiare.

Come racconta Aldo Marchetti nel suo esauriente volume Il movimento brasiliano Sem Terra (Carocci, 28 euro), questa esperienza brasiliana ha dato vita a uno dei movimenti sociali più importanti dell’America Latina. Dove il concetto di movimento sociale ha due caratteristiche: la prima è quella di tipo sindacale, l’altra quella politica. I veri protagonisti delle ultime stagioni politiche nel subcontinente sono stati, infatti, i movimenti ambientalisti, contro l’industria mineraria e l’agricoltura ogm, per i diritti delle donne e dei popoli indigeni. Alcuni dei movimenti sono riusciti perfino a esprimere presidenti saliti alla guida dei rispettivi Paesi, e soprattutto hanno saputo dettare politiche diventate di Stato.

Eppure questo non basta perché il tema della terra e della sua integrità diventi centrale nel dibattito internazionale. Soprattutto in un momento in cui la pandemia e le guerre spingono tutti ad agire per il proprio interesse, all’insegna del “si salvi chi può”. La gestione sostenibile del pianeta dovrebbe invece essere al centro della politica globale, che finora si è concentrata solo sulle regole del commercio e mai sulle condizioni di vita di chi produce le materie prime, sulla sicurezza alimentare e men che meno sullo stato di salute della Terra.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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Mia cara Olympe

Ragazze evviva, abbiamo un cognome, anzi due…

Nella mia famiglia allargata non è una novità: due nipoti dotati da 30 anni di doppio cognome – e allora era un tortuoso aggirarsi nella occhiuta burocrazia che chiedeva conto e ragione di una scelta così originale  – e cinque bisnipotini che dalla nascita portano i cognomi di mamma e papà. Merito in entrambi i casi della presenza maggioritaria in famiglia di donne portatrici di cognomi che sarebbero, con dispiacere, andati perduti. Anche i miei figli hanno sempre dichiarato che avrebbero volentieri portato anche il mio cognome, ma in questo caso a impedirlo è stata la loro pigrizia nell’intraprendere quel percorso che la recentissima sentenza della Corte costituzionale rende finalmente non più necessario. Benvenuta dunque la pronuncia che decide non ci sarà più l’attribuzione automatica alla nascita del cognome paterno in favore di quello di entrambi. Troppo tardi è arrivata: dai sarcasmi in rete, prevalentemente maschili, si intuisce che non è cosa di poco conto e che disturba. Si può anche ragionevolmente temere che la libertà di scelta attribuita dalla sentenza alla coppia dei genitori vada soprattutto nella direzione della tradizione patriarcale, ovvero dell’unico cognome paterno, ma il segnale c’è ed è importante: le madri non si cancellano ed adesso si può anche optare per il solo cognome materno.

Un cognome, due, quello che si sceglie: peccato che, non di rado,  i media quando di donne si parla, si dimentichino che sono portatrici di cognome, per quanto illustre sia: e restano ‘solo’ Samantha, Ursula, Christine, Brigitte, Angela eccetera eccetera. Quel che potrebbe sembrare un modo ‘carino’, colloquiale, caldo di titolare un articolo – faccio autocritica, ne ho fatti anche io –  in realtà finisce per suggerire una loro estraneità o parziale cittadinanza nello spazio pubblico: nel mondo al maschile il cognome conta eccome e a nessuno verrebbe in mente di fare un titolo chiamando Draghi per nome. Questa idea ‘domestica’ del femminile  spesso introduce la più vieta della rappresentazioni: e se Cristoforetti – lei e il suo cv da far tremare le vene ai polsi – si imbarcano per lo spazio, qui la domanda è, mentre ‘Samantha’ non c’è, chi si occupa dei bambini.

Insomma, festeggiando la sentenza della corte una modesta proposta per i titolisti: pensateci un attimo e restituiteci il cognome. E se sono o d’ora in poi saranno due, è pure meglio.

 

 

 

 

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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L'Ambrosiano

Resistenza, foglie, terriccio: «L’amore non l’odio domini il mondo»

Siamo allo snodo cruciale tra volontà di potenza e voglia di pace. La prima esibisce i muscoli, vuole abbattere l’avversario, ridurlo all’impotenza e mostrare al mondo chi conta. La seconda, conscia che il conflitto è inevitabile, usa le armi se serve ma per uscire dalla logica dello scontro e costruire la convivenza umana. «Aiutiamoli a vincere la guerra», ha detto il Segretario alla Difesa Usa per invogliare ad armare Kiev. «Aiutiamoli a edificare la pace» avrei voluto sentir rispondere dall’Europa all’alleato. Riforniamo gli arsenali dell’Ucraina, perché con la Resistenza preservi l’identità di popolo e cultura, si difenda dall’aggressore frustrando le mire imperialistiche, lo costringa al tavolo e tutti diciamo a Putin: sospendiamo l’invio di armi noi, tu fermi le bombe: parliamo! La storia è maestra per chi l’ascolta. C’è una cultura europea della Resistenza.

Si leggano Lettere di condannati a morte della Resistenza europea. Lì a “vincere” son la vita, la Pace, non la distruzione dell’altro. Chi si batteva nella Resistenza non aveva fatto di suo la scelta di sparare, ma «non potevo fare altrimenti», scriverà un partigiano scusandosi con la madre perché la lotta l’ha portato al patibolo. «Che l’amore non l’odio domini il mondo» scriveva un altro sapendo che la vittoria batte l’avversario, ma, per la dose di violenza che contiene, lascia pesanti strascichi, genera odio, rancori, rivalse. Thomas Mann, prefatore del volume, coglieva in quel coro dolente da tragedia eterna dell’umano che si riscatta dalla distruttività dell’inumano (pure presente al fondo di noi) un «impulso ad avvicinare la vita umana al bene, alla ragione, voluto dallo spirito, un compito imposto dall’alto». Un giovane francese fucilato dalla Gestapo scrive: «Mi considero come una foglia che cade dall’albero per fare terriccio. La qualità del terriccio dipenderà da quella delle foglie». Riponeva nella gioventù francese «ogni speranza». Come foglie di oggi, esposte ai venti di chi cerca sfide all’O.K. Corral a Mosca o a Washington dobbiamo decidere se puntare sul “vincere”, col rischio di finir tutti in un’ecatombe, oppure di noi stessi «fare terriccio» in cui possano germinare semi di pace.

  • Marco Garzonio

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    A fine giornata selezioniamo il fatto nazionale o internazionale che ci è sembrato più interessante e lo sviluppiamo con il contributo dei nostri ospiti e collaboratori. Un approfondimento che chiude la giornata dell'informazione di Radio Popolare e fa da ponte con il giorno successivo.

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    Vade retro gay: l'offensiva dei conservatori in Vaticano

    Gli omosessuali? Sono in peccato mortale e la chiesa non deve benedire le coppie gay. Sono parole del cardinale tedesco Gerhard Ludwig Müller, prefetto emerito per la congregazione della dottrina della fede. Il porporato è uno dei punti di riferimento dell’ala più conservatrice in Vaticano, che osteggiò papa Francesco. Müller ha detto anche che aver fatto passare le associazioni cattoliche dalla Porta Santa di San Pietro in occasione del Giubileo è “solo propaganda”. A chi si rivolge il cardinale? Vuole provare a influenzare Papa Leone? Ne abbiamo parlato con il giornalista vaticanista e scrittore Marco Politi, autore di "La rivoluzione incompiuta, la Chiesa dopo Francesco". L'intervista di Alessandro Principe.

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