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Springsteen on Broadway

Quando si aprono le porte del Walter Kerr Theatre – una sala con meno di mille posti – non sai bene che cosa aspettarti. Alla fine, “Springsteen on Broadway” non sarà un concerto, non un monologo, non un reading, neanche un dialogo con il pubblico e nemmeno uno spettacolo teatrale. Sarà un’alchimia perfettamente distillata di tutti questi elementi. Sarà soprattutto la meditazione a voce alta, in parole e in musica, di un uomo arrivato a quasi settant’anni che decide di voltarsi indietro con compassione. Sarà la sua “lunga e rumorosa preghiera e il suo trucco magico”, come lo definisce Springsteen stesso.

Ogni parola è pensata, misurata, mai fuori posto. La prima che pronuncia è “Dna”. Lo show si chiude con il battito del cuore riprodotto percuotendo il palmo della mano sulla cassa della chitarra. Talento naturale e cuore. Nel mezzo, la storia della sua vita. Che fa ridere, fa piangere e fa pensare.

Scenografia essenziale, luci taglienti, la sua ombra proiettata sui mattoni alle spalle, nessun elemento che distolga l’attenzione dalla sua voce, per oltre due ore. Silenzio assoluto, rotto solo da un microfono (da cui a volte si allontana), una chitarra acustica o un pianoforte, a volte un’armonica. E dagli applausi.

Quindici brani che aprono o chiudono, ciascuno, un capitolo recitato di questa grande storia americana. Canzoni di fatto autobiografiche come “My Father’s House” e “Thunder Road” sussurrate, scandite lentamente, parte integrante della narrazione. Canzoni che fanno da contrappunto e precisano il racconto parlato, già pieno di ritmo e musicalità.

Come nella sua autobiografia Born To Run, da cui il copione dello show è tratto e adattato, Bruce Springsteen racconta le presenze della sua infanzia – che persistono-, la folgorazione per Elvis a sette anni, la relazione d’amore e odio con la sua Hometown nel New Jersey, il senso di assenza verso il padre, quello di orgoglio per la madre, la prima chitarra, un’educazione cattolica frustrante, la giovinezza in cui il futuro appare come una pagina bianca, il senso di libertà e promessa dei vent’anni, la ferita della guerra del Vietnam, la lunga storia d’amore con il deserto, l’America di oggi infestata dai peggiori fantasmi del passato, l’amore che guarisce, il lavoro interiore, la forza collettiva della musica, il sacro fuoco del Rock’n’Roll, la formula magica della E Street Band, i legami con i vivi e con i morti.

Springsteen riconosce le sue fragilità, le cose contro cui lotta ogni giorno, le sue contraddizioni. Riflette, e fa riflettere, sulla fiducia, sull’amore negato, sulla mortalità, sull’anima della nazione americana. L’unica citazione è riservata a Martin Luther King: “L’arco dell’universo morale è lungo ma tende verso la giustizia”.

Non c’è niente di più lontano da un suo concerto di tre ore e mezza a San Siro, ma questo show non è meno potente. In teatro, Springsteen a tratti sembra un predicatore, altre volte uno stand-up comedian, altre ancora un paziente seduto sul lettino dello psicanalista. È come se ci avesse invitati nel soggiorno di casa sua per rivelarci qualcosa di intimo e prezioso.

“Spero di essere stato un buon compagno di viaggio”.

La musica parte e si interrompe, entra, esce e rientra. Scorre. La sequenza di canzoni, una dietro l’altra, si fa più fitta nella seconda parte: la moglie Patti Scialfa lo raggiunge sul palco per i duetti su “Tougher Than the Rest” e “Brilliant Disguise”. Una menzione a parte per “Born in the USA” suonata in una stridente versione blues. Un lamento contro la guerra che questa volta non può essere equivocato.

Per chiudere, naturalmente, con “Born to Run” e quel cuore che batte in un  teatro pervaso di pace e commozione.

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    Valentina Redaelli
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    Teatro. La rivoluzione delle "piscinine" milanesi vista da due piccioni in crisi esistenziale Al Teatro della Cooperativa, a Milano ha debuttato in prima nazionale "Lo sciopero delle bambine", in scena Rita Pelusio e Rossana Mola di PEM Habitat Teatrali, compagnia che porta avanti una ricerca artista che declina contenuti civili e ironia. Lo spettacolo, con la regia di Enrico Messina, racconta una storia avvenuta a Milano nel 1902, quando le “piscinine”, che in dialetto meneghino significa “piccoline”, bambine, tra i sei e i tredici anni, che lavoravano senza diritti, sfruttate e sottopagate, ebbero la forza di scioperare e, per cinque giorni, fermare l’industria della moda della città. A raccontare la vicenda delle piscinine in scena sono due piccioni, due creature che abitano le piazze, le cui parole rispecchiano lo sguardo dei contemporanei, spesso stanchi e disillusi davanti alle sfide della storia. Nella trasmissione Cult Ira Rubini ha intervistato l’attrice Rita Pelusio.

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