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Siria: la vittoria, i profughi, la paura

Baghouz Siria
A Baghouz per la proclamazione della sconfitta dello Stato Islamico, nei campi profughi e tra i prigionieri di ISIS, a Raqqa che nonostante i kamikaze in bicicletta torna a vivere, nel Rojava dove l’esperimento di democrazia dal basso dei curdi teme l’imminente arrivo dei carri armati turchi.

Una settima in Siria con i reportage di Benedetta Argentieri, reporter di guerra e documentarista, autrice di “I Am The Revolution” e “Our War”.

24 Marzo – Campo profughi Al-Hol

Il giorno dopo l’annuncio della vittoria contro Isis si fanno i conti con l’emergenza umanitaria. Nel campo di Al-Hol, a circa 40 chilometri da Al Hasaka in Siria, sono stipate 70 mila persone: famiglie irachene, profughi siriani dalle zone contese e soprattutto migliaia di persone che sono uscite da Baghuz l’ultima roccaforte del califfato. In particolare sono quasi 10 mila le donne affiliate all’organizzazione terroristica, molte delle quali sono straniere. Arrivano dall’Europa, dalla Russia, dal Marocco tanto per citare alcuni Paesi. Loro occupano una zona ad hoc del campo. Abbiamo dovuto dividerle dal resto della popolazione perché ci sono stati tanti incidenti – ha spiegato il manager della struttura Nibal – tende a fuoco, accuse di essere infedeli e risse. L’ultimo incidente il 21 marzo scorso in cui un gruppo di donne ha attaccato le guardie con coltelli e pietre, almeno 7 persone sono rimaste ferite. Molte di loro non hanno alcun rimorso – continua Nibal – è più l’ideologia, la volontà di continuare a credere che un giorno il califfato risorgerà dalle ceneri, a preoccupare l’amministrazione curda. Elham Ahmed co-presidente del Consiglio Democratico Siriano ha spiegato che ora comincia la seconda fase della guerra contro Isis che riguarda le cellule dormienti, poi ci sarà la terza che dovrà combattere l’ideologia.

Campo Profughi Al-Hol

25 Marzo – Kobane

Un tribunale internazionale a Kobane per processare le migliaia di persone che sono arrivate in Siria per combattere con Isis. Questa è la richiesta delle Forze Democratiche Siriane che dopo la vittoria militare sono alle prese con una nuova emergenza. Infatti  sono migliaia i combattenti e le donne arrestati, che le proprie nazioni non vogliono riportare indietro. “Gli Stati stranieri devono prendersi la responsabilità di queste persone” spiega Asya Abdullah, leader del TEV-DEM: Movimento per la Società Democratica Curda. In particolare le donne hanno le posizioni più problematiche e delicate. “Alcune di loro sono vittime dei loro mariti o della giovane età, altre invece hanno scelto di unirsi al califfato, hanno combattuto al fronte e seviziato altre donne – continua Abdullah – ma i curdi da soli non hanno gli strumenti, abbiamo bisogno di aiuto per legiferare e soprattutto per avere informazioni più dettagliate su tutte queste persone”. Le autorità curde hanno fretta, la minaccia turca si avvicina e se Ankara attaccasse la zona, loro non sarebbero in grado di trattenere migliaia di terroristi che, una volta liberi, tornerebbero a combattere.

26 Marzo – Manbij, Nord-est Siria

Omicidi, rapimenti, attacchi, la seconda fase della guerra è già cominciata nel nord-est della Siria, soprattutto nella zona a prevalenza araba come Manbij e Raqqa dove i jihadisti sono riusciti a rimanere nascosti, nonostante un lavoro accurato di intelligence. Il capo dell’antiterrorismo spiega che la situazione è molto delicata, da un certo punto di vista anche più pericolosa soprattutto per i civili. L’ufficiale spiega anche che per il momento gli americani non hanno acconsentito a far diventare tutta l’area una no flight zone, prevenendo così dei possibili attacchi dell’aviazione turca. Come contro altare Washington ha acconsentito a far rimanere almeno 400 soldati. Ne bastano anche due per fermare le altre potenze mondiali. La soluzione deve essere politica e non militare per questo l’amministrazione ha aperto dei negoziati con la Russia e il regime di Bashar al-Assad che però non sembrano interessati a un vero dialogo. Vorrebbero che tutto  tornasse come prima del  2011, cancellare l’autonomia e ridare il controllo dell’area al regime, ma questa opzione non è accettabile, soprattutto per milioni di persone che stanno costruendo dal basso un processo democratico.

27 Marzo, La rivoluzione è donna

La rivoluzione nel nord-est della Siria è donna. Lo YPJ, l’unità di protezione delle donne, è diventata famosa in tutto il mondo per le capacità militari ma contemporaneamente c’è stata una profonda spinta sul piano politico. Negli ultimi 5 anni infatti sono nate organizzazioni di donne a livello locale in tutte le zone liberate comprese quelle arabe. Una società parallela che ha come obiettivo quello di sensibilizzare le donne e parlare di problemi: dalla violenza domestica alla salute, e ancora giornali, televisioni, educazione. In totale sono nate 44 organizzazioni. Questa spinta ha anche portato a interrompere pratiche come la poligamia e matrimonio minorile che, sotto il regime di Bashar al-Assad, erano molto comuni. È stato dato più spazio alle donne che siedono con gli uomini ai vertici di tutti gli uffici dell’amministrazione autonoma. Ora si vuole fare un passo in più, creare un parlamento delle donne dove discutere i problemi a livello regionale e non solo locale. Un nuovo corpo politico che permetterà a tutte, a prescindere dall’etnia o dalla religione, di proporre nuove leggi e continuare a trasformare la società.

28 Marzo, Raqqa

Raqqa è una città che è tornata a vivere, in tutte le vie e in tutte le strade ci sono i segni di una guerra atroce che ha portato alla distruzione almeno il 90% della città. Eppure negli ultimi sei mesi gli abitanti sono tornati, ci sono almeno 400.000 persone spiega Ahmed delle Forze Democratiche Siriane contro i 600.000 prima della guerra. Molti civili hanno deciso di rimboccarsi le maniche ricostruirsi le loro case e la Medina è viva, i parchi sono pieni di famiglie e bambini che giocano ai piedi delle rovine, ci sono negozi e ristoranti sotto edifici pericolanti. Il Comitato di Ricostruzione ha già cancellato le scritte e, per quanto possibile, i segni lasciati dallo Stato Islamico di cui Raqqa è stata capitale per 4 anni. La città è stata liberata il 17 ottobre 2017, la tensione però è ancora molto alta Infatti da circa una settimana sono state bandite dalla circolazione tutte le motociclette, perché spesso usate in attacchi terroristici. Negli ultimi mesi l’amministrazione ha dovuto mettere diversi coprifuoco al tramonto per fermare l’ondata di rapimenti e violenze, ma di giorno la gente cammina tranquilla e sorride. Molte donne usano ancora il niqab, il velo nero integrale, ma una minoranza ha il volto scoperto e soprattutto in tanti dicono di non avere più paura.

Raqqa

29 Marzo, Raqqa, lo Stadio Nero

In passato si chiamava lo Stadio Nero per via del colore delle pareti esterne, “era un centro sportivo dove i giovani di Raqqa potevano giocare a calcio, fare allenamenti di atletica e persino di kick boxing” spiega Ahmed delle Forze Democratiche Siriane. Mai nome si è rivelato così azzeccato, quando sono arrivate le milizie del Free Syrian Army lo stadio è diventato un tribunale, poi nel 2013 con Isis è stato trasformato in una prigione dove nei sotterranei i detenuti venivano picchiati e torturati, molti non ne sono usciti vivi. Ahmed c’è stato per una settimana “Ero con mia moglie per strada, il guanto le è scivolato un po’ giù -spiega – risultato si vedeva un lembo di pelle, crimine imperdonabile per un miliziano che era nei paraggi” e Ahmed è stato arrestato. Insieme scendiamo nei sotterranei attraverso una piccola grata, è la prima volta che ci torna da quando è stato liberato. Mostra le stanze delle torture dove c’è una piccola piscina per il waterboarding, le maniglie su cui i detenuti venivano appesi per essere picchiati. Scritte sui muri in francese, in inglese, in turco “Dio è grande” oppure “Noi vogliamo la sharia”. Per terra ci sono di bottiglie di vodka, siringhe e sigarette, “Si facevano di tutto prima di torturarci” continua a raccontare. Oggi lo stadio è stato dipinto di giallo, un uomo corre sul campo di atletica: un tentativo per cancellare il passato ma per chi, come Ahmed, c’è stato è impossibile dimenticare.

Stadio Nero

30 marzo 2019, La jihadista italiana

Non poteva portare il niqab, il velo integrale nero che copre il viso, sentiva di essere discriminata per la sua fede e per questo ha deciso di lasciare Treviso. Prima è andata in Turchia dove si è sposata con un tunisino conosciuto su Facebook, poi insieme sono partiti per unirsi allo Stato Islamico in Siria, era la fine del 2015. Sonia Khediri ha 22 anni e oggi vive nel campo di Heyn Issa, con lei ci sono altre 300 donne tutte di nazionalità diversa. Sonia è molto alta e ha gli occhiali poi come tutte le altre indossa il niqab che la rende  irriconoscibile. “Ma come non mi conosci? Tutta Italia parla di me” dice ridendo, ha un accento veneto ma si sente che non parla italiano da un bel po’: intervalla le sue frasi con parole arabe. Racconta di non essere l’unica italiana, e altri due connazionali sarebbero in carcere ma nessuno del governo è venuto a cercarla. Suo marito è morto il 27 giugno del 2017, a dicembre dello stesso anno è riuscita a uscire e ha partorito il secondo figlio proprio qui nel campo, la prima ha 3 anni e mezzo. Dice di essersi pentita e che non era come se lo aspettava, anche se all’inizio stava bene. “Volevo vivere nella sharia, la legge islamica, ma li non cerano persone sincere”. Vorrebbe tornare a casa ma per lei, come per tutte le altre donne di Isis, l’iter di un possibile ritorno potrebbe essere molto lungo.

Donne Isis - Campo di prigionia

  • Autore articolo
    Benedetta Argentieri
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