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Siria, il piede in due scarpe

La guerra siriana verrà decisa con ogni probabilità nel nord del paese. Non è un caso che la maggior parte dei raid russi degli ultimi mesi si sia concentrata proprio qui, tra le province di Latakia, Idlib e Aleppo. La campagna del regime in queste ultime settimane per isolare i ribelli che controllano ancora una parte della città di Aleppo s’inserisce proprio in questa strategia.

Ma a beneficiare dei bombardamenti russi non solo le truppe governative e le milizie straniere che sostengono Bashar al-Assad. Anche le milizie curde sono riuscite a conquistare altro territorio, assumendo il controllo di centri che fino a poco tempo fa erano in mano ad altri gruppi ribelli.

La domanda è proprio questa: i curdi siriani, che approfittando della guerra hanno creato un’ampia zona autonoma nel nord della Siria, stanno con il regime o con l’opposizione? Li possiamo ancora considerare dei ribelli? I miliziani curdi delle Unità di Protezione Popolare (YPG) sono stati tra i pochi a combattere sul campo contro l’ISIS, anche grazie al supporto degli Stati Uniti, ma nonostante questo non si sono mai schierati in maniera chiara e netta con il regime oppure con l’opposizione.

“L’obiettivo strategico dei curdi siriani – ci spiega Andrea Glioti, scrittore, analista, studioso, che ha viaggiato a lungo in Siria e in tutto il Kurdistan e che è uno degli ideatori del progetto Good Morning Syria – è sempre stato quello di unire i tre cantoni del Rojava: Afrin nel nord-ovest, Kobane più a est e la Jazeera verso il confine iracheno. E ormai l’obiettivo è stato quasi raggiunto, grazie alle conquiste nella zona settentrionale della provincia di Raqqa e proprio in questi giorni nella regione a nord di Aleppo. E infatti oggi il luogo simbolo della guerra siriana è diventata la cittadina di Azaz, tra Aleppo e il confine turco”.

Questa continuità territoriale dà parecchio fastidio al governo di Ankara, che dalla scorsa estate ha ripreso a combattere contro il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), molto vicino alle Unità di Protezione Popolare siriane. Per la Turchia una regione autonoma curda nel nord della Siria, subito sotto il suo confine, darebbe un vantaggio strategico enorme al PKK e quindi va evitata in ogni modo. Ecco perché le forze armate turche hanno colpito più volte le postazioni del YPG dall’altra parte della frontiera.

turkey-syria border

L’atteggiamento dei curdi siriani, anche sulla base della mia esperienza diretta, è sempre stato molto pragmatico. Mi riferisco – ci racconta ancora Andrea Glioti – a quella corrente che si rifà direttamente al PKK turco e che ha sicuramente tratto vantaggio dal fatto che la repressione del regime non ha mai preso di mira queste zone. Adesso, con la campagna aerea russa, è evidente come i curdi siriani abbiano cercato di tenere il piede in due scarpe. Hanno formato una coalizione armata con dei piccoli gruppi ribelli arabi, ma allo stesso tempo hanno attaccato i centri controllati dai gruppi più importanti del fronte anti-regime, anche grazie alla copertura aerea russa, che sta usando i curdi per tagliare le vie di rifornimento ai ribelli di Aleppo”.

Un atteggiamento ambiguo che ha creato una situazione che potrebbe sembrare anomala, ma che in realtà conferma semplicemente come questa sia una guerra ad alleanze variabili. Prima o poi il nemico può anche diventare un alleato importante, magari solo per un certo periodo. In questo scenario in continua trasformazione i curdi sono così diventati l’ago della bilancia della guerra siriana. E pensare che a fine gennaio le Nazioni Unite li avevano esclusi dal tentativo di negoziato per arrivare a un cessate il fuoco a livello nazionale.

Ma ormai non si combatte solo nel nord della Siria. C’è una guerra, seppur diversa e molto meno intensa, anche dall’altra parte del confine, nel sud-est della Turchia. In pochi mesi gli scontri tra esercito di Ankara e PKK hanno fatto centinaia di vittime, molte civili, e il paese è stato colpito da diversi attentati anche in altre zone. Ci sono stati morti anche a Istanbul e Ankara. L’ultimo attentato nella capitale turca è di pochi giorni fa e secondo il governo la responsabilità è proprio dei curdi siriani del YPG, con l’appoggio del PKK. Il presidente Erdogan e il primo ministro Davutoglu hanno minacciato un intervento di terra nel nord della Siria, con un’azione militare che rischierebbe di portare a un confronto diretto e molto pericoloso con la Russia.

“Io ritengo che sia credibile l’ipotesi di un attacco dei curdi siriani in Turchia – ci dice Huseyin Bagci, Professore all’Università Tecnica per il Medio Oriente di Ankara – ma in ogni caso quello che sta succedendo mette a nudo tutti gli errori di calcolo sulla guerra siriana da parte del nostro governo. Non credo si arriverà sul serio a un intervento di terra nel nord della Siria, però sono convinto che il nostro paese sarà sempre più un obiettivo del terrorismo internazionale”.

L’ultimo attentato di Ankara è stato rivendicato da una piccola organizzazione armata, i Falchi per la Libertà del Kurdistan (TAK), formato da dissidenti del PKK. I due gruppi non avrebbero più alcun legame. Anzi, secondo Mahmut Bozarslan, produttore di Diyarbakir, la capitale del Kurdistan turco, “i TAK sarebbero da tempo infiltrati dai settori più profondi dei servizi di sicurezza e d’intelligence turchi, e quindi sarebbero facilmente manovrabili”.

È quindi evidente come la questione curda sia ormai legata alla crisi siriana, rendendo ancora più complessa e caotica la situazione in Medio Oriente. E in questo la comunità internazionale, nessuno escluso, ha delle grosse responsabilità. La guerra allo Stato Islamico ha fatto passare in secondo piano tutte le altre cose che stavano succedendo in Siria. Oggi il futuro della regione si sta decidendo nel nord-ovest del paese, dove l’ISIS, se si esclude la zona a nord-est di Aleppo, è praticamente assente.

  • Autore articolo
    Emanuele Valenti
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    Pubblica di mercoledì 03/12/2025

    Gran Bretagna e Germania, i grandi malati d'Europa. Il primo ministro britannico Starmer e il cancelliere tedesco Merz sono entrambi proiettati in una rincorsa della destra estrema. Il laburista britannico Starmer, due settimane fa: «restauriamo ordine e controllo», titolo di un documento presentato alla Camera dei Comuni. Il democristiano tedesco Merz: ci vogliono «controlli ai confini e respingimenti» perchè «l’immigrazione ha un impatto sul paesaggio urbano». Proprio così. Germania e Gran Bretagna, due potenze economiche mondiali: la Germania (80 milioni di abitanti) con il terzo pil del mondo (dopo Stati Uniti e Cina); il Regno Unito (con 60 milioni di abitanti) con il sesto pil mondiale (dopo la Germania c’è il Giappone e l’India e poi il Regno Unito). La “malattia” (la rincorsa ad essere a volte più a destra delle destre) rischia di cambiare i connotati a tradizioni politiche europee centenarie: come il laburismo britannico, il popolarismo democristiano tedesco insieme alla socialdemocrazia, sempre in Germania. Pesa, inoltre, un discorso pubblico sempre più contaminato da un lessico guerresco. Che danni può provocare questa “malattia” in due paesi fondamentali del continente europeo? Pubblica ha ospitato la storica Marzia Maccaferri (Queen Mary, University of London) e il giornalista Michael Braun (corrispondente da Roma del berlinese Tageszeitung).

    Pubblica - 03-12-2025

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    Finanza e Industria, ecco chi ci porta alla guerra

    Politici, industriali e finanzieri sono concordi nel sostenere la strada del riarmo e della militarizzazione europea: per i finanzieri si tratta di far fruttare i propri fondi rapidamente e in maniera sicura, per gli industriali idem, con fortissime iniezioni di denaro pubblico, non a caso anche quest’anno hanno fatto il record di vendite come registra il Sipri di Stoccolma il più autorevole istituto di ricerca sulla spesa militare nel mondo. Il problema, spiega Francesco Vignarca, portavoce della Rete Pace Disarmo, ricercatore e analista (tra i curatori del libro Europa a mano armata curato con Sbilanciamoci) è che così vince il discorso di guerra. Banalizzante, propagandistico e pericoloso perché sequestra la democrazia: “Il complesso militare industriale ha un pensiero medio lungo strategico. Stanno già intervenendo per togliere le leggi sulla limitazione alla vendita di armi, perché sanno che dovranno vendere questa sovraproduzione da qualche parte, così come fanno entrare capitali esteri nella nostra industria, come i sauditi in Leonardo, perché non siamo noi gli acquirenti di queste armi”. Ascolta l'intervista di Cinzia Poli e Claudio Jampaglia.

    Clip - 03-12-2025

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