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Sicurezza-libertà: dilemma della realpolitik

«Non ci si può fare alcuna illusione: si può solo cercare di porre dei limiti al primato della sicurezza sulla libertà».

E’ drastico il giudizio di Massimo L. Salvadori, storico, 79 anni, una vita dedicata alla ricerca sul Novecento, la democrazia, la sinistra. Le stragi di Parigi, la situazione di allarme e di pericolo che si è venuta a creare, finiranno per far prevalere le esigenze di sicurezza su quella della libertà, racconta lo storico torinese ospite a Memos.

«Il presupposto dell’esercizio pieno e senza costrizioni delle libertà individuali e collettive – sostiene Salvadori – è proprio quello che rimanda all’assenza di situazioni di pericolo. E’ evidente che, se siamo in una condizione di pericolo, si crea uno stato di insicurezza. Le misure che i governi prendono per garantire la sicurezza in una condizione di pericolo entrano inevitabilmente in contrasto con la fruizione delle libertà in condizione di normalità».

Massimo L. Salvadori
Massimo L. Salvadori

Per il professore, dunque, lo stato di eccezione giustifica in sé una limitazione delle libertà il cui esercizio è pieno solo in condizioni normali. «Certo è – prosegue Massimo Salvadori – che se in nome della sicurezza si arriva ad una condizione di soppressione delle libertà fondamentali dell’individuo, dei gruppi, dei partiti, delle correnti culturali, allora si impone una decisione. E’ una decisione che riguarda il primato che si intende dare alla sicurezza e alla libertà. Noi abbiamo un precedente allarmante in proposito: si tratta della legislazione messa in atto negli Stati Uniti da Bush, il Patriot Act, che ha dato un colpo durissimo alle libertà e che probabilmente è andato molto oltre l’esigenza di proteggere la sicurezza. Abbiamo tutti in mente l’orrore che è stato Guantanamo e tutto ciò che ne è derivato! Quando una società ha paura e un governo soffia sulla paura, come è stata l’amministrazione di Bush figlio, è evidente che si entra in una situazione che mette in pericolo non soltanto la sicurezza, ma anche le libertà e quel tanto di democrazia di cui godono i regimi occidentali. E’ un dilemma molto serio. Però, io non mi farei illusioni: la sicurezza in condizioni di pericolo ha sempre il primato sulla libertà. Si tratta di individuarne i limiti».

Professor Salvadori, accanto a questo aspetto giuridico, che riguarda gli spazi di esercizio delle libertà, ce n’è un altro politico-diplomatico, che riguarda le alleanze. Le chiedo: in uno scontro per le libertà si può essere alleati di paesi che non rispettano quelle stesse libertà? Mi riferisco all’Europa e alla Turchia, con Bruxelles che ha concesso aiuti finanziari ad Ankara in cambio di un contenimento dei flussi migratori, nonostante la Turchia di Erdogan non rispetti i diritti delle opposizioni e della libertà di stampa.

«Il caso della Turchia è molto interessante. Erdogan – sostiene Massimo Salvadori – è un presidente autoritario e lo ha dimostrato in tutti i modi. E’ un capo dello stato che non esita ad utilizzare il potere in modo quanto mai spregiudicato, violento, brutale: sia nel combattere le opposizioni che nel sopprimere la libertà di stampa. Ora, questa Turchia è lo stesso paese che pone all’Ue un grande interrogativo: o mi date dei soldi oppure io apro la cataratta dell’immigrazione. Erdogan, che certamente non piace né a Merkel, né a Hollande e né a Renzi, porta l’Europa su un terreno in cui finisce per prevalere la realpolitik e una questione di interessi, anche economici. Nelle relazioni con la Turchia prevale in Europa un’idea di difesa, di sicurezza, e ciò porta ad uno scambio: da un lato si accetta il rafforzamento del potere di Erdogan, anche se non gradito; dall’altro si ottiene un contenimento dell’ondata migratoria dentro le frontiere della Turchia».

Dalle cose che lei ci racconta emerge però una contraddizione, professor Salvadori. Se l’Occidente sta combattendo contro Daesh in nome dei valori di libertà, non è contraddittorio se quegli stessi valori vengono compressi, limitati, ridimensionati qui in Occidente?

«Certo che è contraddittorio. Si ricorda che bandiera aveva alzato Bush nel giustificare le guerre in nome della democrazia? Qualsiasi governo, nel momento in cui muove in guerra, alza una bandiera e per noi è inevitabile che la bandiera legittimante sia quella dei valori delle libertà contrapposta a quella della barbarie. Su questo punto sono persuaso di un fatto: nel momento in cui la difesa di certi valori diventa un ostacolo rispetto al condurre in maniera efficace la repressione, è sempre la seconda che vince. E’ sempre successo così. Una società, l’opinione pubblica, finisce sempre per legittimare la repressione, il restringimento della libertà, se questo è considerato il prezzo da pagare perché si possa vivere in condizioni, se non di normalità, almeno di difesa di sé e degli altri. Io, su questo punto, non mi faccio alcuna illusione. Certo la contraddizione esiste, è palese. Ripeto: la realpolitik in condizioni di eccezione prevale sempre, perché se i valori non si armano allora vengono messi in pericolo. Ma nel momento in cui quei valori si armano rischiano di mettere in forse se stessi. E’ questa la contraddizione da cui non si esce».

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    Raffaele Liguori
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    Il 7 dicembre la Scala apre la stagione con l’opera censurata da Stalin

    Nel cinquantenario della morte di Šostakovič il Teatro alla Scala inaugura la Stagione con il suo capolavoro Una lady Macbeth del distretto di Mcensk, tratto dal racconto di Nikolaj Leskov in cui una giovane sposa con la complicità dell’amante uccide il marito e il tirannico suocero, ma viene scoperta e finisce per suicidarsi in Siberia, tradita da tutti. Dopo il debutto a San Pietroburgo, l’opera, che avrebbe dovuto essere il primo capitolo di una trilogia sulla condizione della donna in Russia, ebbe enorme successo in patria e all’estero. Stalin assistette a una rappresentazione a Mosca nel 1936; due giorni dopo apparve sulla Pravda la celebre stroncatura dal titolo “Caos invece di musica” con cui il regime metteva all’indice l’opera e il compositore. Anni dopo Šostakovič preparò una nuova versione che andò in scena a Mosca nel 1963 con il titolo Katarina Izmajlova, dopo che il sovrintendente Ghiringhelli aveva invano cercato di ottenerne la prima per la Scala. Oggi il Teatro presenta la versione del 1934 con la direzione del M° Chailly e il debutto del regista Vasily Barkhatov. Ascolta Riccardo Chailly nella presentazione dell’opera.

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