Approfondimenti

Gli schiavi che smantellano le navi

Paghe da venti, trenta centesima all’ora, lavorando a contatto di sostanze tossiche, nocive. Pochissimi controlli sulla sicurezza, pesanti condizioni di sfruttamento. E’ la situazione dei “nuovi schiavi”, quelli che smantellano le navi dismesse, anche italiane.

È un quadro inquietante quello emerge dalla denuncia del rapporto della coalizione di Ong Shipbreaking Platform a cui hanno aderito Greenpeace e, per l’Italia, Legambiente. Ogni dieci navi da rottamare, sette finiscono in Asia. Il motivo? Sulle spiagge di Pakistan, India, Bangladesh la demolizione avviene a costi estremamente bassi, senza diritti, protezioni, con salari da fame e con pochissimi controlli sull’inquinamento, sull’ambiente. Diverse denunce sono state fatte anche da IndustriALL (un sindacato internazionale che organizza oltre 50 milioni di lavoratori in 140 Paesi)

Giovani operai pakistani a contatto con fanghi nocivi
Giovani operai pakistani a contatto con fanghi nocivi. Foto di Mike Hettwer

“Tra i Paesi che ogni anno contribuiscono all’inquinamento vi è l’Italia”, sostiene Shipbreaking Platform. “Negli ultimi sette anni, circa 90 navi appartenenti ad armatori italiani sono state smantellate sulle spiagge dell’Asia meridionale. Tra questi: Ignazio Messina, Grimaldi Group, Cafiero Mattioli, SAIPEM e Vittorio Bogazzi si sono contraddistinti per pratiche di demolizione inaccettabili, in alcuni casi addirittura violando normative europee ed internazionali”.

Gli armatori respingono le accuse, sostenendo di rispettare le leggi. Ma la legge – spiega Shipbreaking Platform – la possono aggirare con la Flag of Convenience (bandiera ombra, di convenienza, ndr),vendendo le navi da dismettere ai cosiddetti “cashbuyer” (coloro che comprano in contanti, ndr) che, ovviamente, battono una bandiera non europea, ma di piccoli Stati. Sono dunque i nuovi proprietari a occuparsi di smaltirle. In questo modo gli armatori risultano non imputabili di nulla, perché non risulta che abbiano mandato alcuna nave a essere smaltita”.

Le navi commerciali hanno al loro interno notevoli quantità di materiali tossici come amianto, morchie, depositi di petrolio, vernici contenenti metalli pesanti. Molte società, invece di scegliere una rottamazione pulita, controllata, in aree a tecnologia avanzata, puntano ai bassi costi e agli scarsi controlli per un tornaconto economico, a danno dell’ambiente e dei lavoratori. Per questo scelgono Paesi come India, Pakistan o Bangladesh. È un grande business. Ogni anno circa mille navi vengono smantellate al fine di recuperare significative quantità di acciaio e altri materiali utili.

La demolizione è un’attività pericolosa che richiede tecnologie adeguate, la presenza di misure adatte a proteggere l’ambiente marino, ad assicurare un corretto smaltimento dei rifiuti tossici, e a garantire elevati standard in tema di sicurezza e salute per i lavoratori. Eppure solo poche navi vengono smembrate in modo sicuro e sostenibile.

Emblematico il caso del Bangladesh dove i lavoratori operano in condizioni pesantissime e rischiose. “Solitamente non hanno alcun accordo contrattuale con la direzione del cantiere e lavorano per lunghe ore, senza ottenere alcun riconoscimento degli straordinari e delle ferie pagate. Nel 2015 almeno 16 lavoratori sono morti e più di 20 sono stati gravemente feriti. I feriti non ricevono un sostegno finanziario per il trattamento medico urgente. L’ospedale specializzato più vicino si trova nel centro di Chittagong, troppo lontano per gestire al meglio le emergenze”.

Secondo IndustriALL gli operai guadagnano tra 1,50 e 4,20 euro al giorno, così ottenendo uno stipendio mensile di circa 45-126 euro, senza giornate festive. Il salario di sussistenza in Bangladesh è stimato in circa 260 euro al mese.

Bangladesh. Operai durante lo smantellamento
Bangladesh. Operai durante lo smantellamento. Foto di Mike Hettwer

Pesante anche la situazione dei lavoratori dell’India. Secondo i sindacati locali almeno sei lavoratori sono morti nei cantieri di demolizione nel 2015. Ma sono numeri sottostimati.

“Le autorità spesso non rivelano i dati degli incidenti; pertanto, si suppone che molti altri operai abbiano subito infortuni e/o siano affetti da malattie professionali. I proprietari dei siti di smantellamento non sono mai stati ritenuti responsabili della morte di lavoratori, essendo sempre riusciti a condizionare il lavoro della polizia, in modo tale da far cadere qualsiasi tipo di accusa”.

Secondo IndustriALL, i lavoratori, in questi cantieri indiani, guadagnano tra 59 euro (lavoratore non qualificato) e 119 euro (lavoratore qualificato); in India il salario di sussistenza è di circa 195 euro al mese.

Pakistan. I cantieri di demolizione si affacciano sul Golfo Persico, 50 chilometri a ovest di Karachi, la città più grande del Paese. Si estendono per diversi chilometri lungo la costa. Agli operai non viene offerto un alloggio adeguato e igienico. Non hanno alcun contratto di lavoro. Spesso muoiono in incendi ed esplosioni, cadendo da grandi altezze o schiacciati da grandi blocchi di acciaio. I feriti devono essere trasportati agli ospedali di Karachi, che si trovano a una distanza eccessiva dai cantieri in caso di incidenti gravi.

Legambiente ha aderito a Shipbreaking Platform. Sebastiano Venneri, è il responsabile Territorio e Innovazione dell’organizzazione.

Perché questi lavoratori, spesso minorenni, accettano condizioni di lavoro cosi pericolose?

“La manodopera giovanile è diffusissima. Secondo una studio condotto dalla Shipbreaking Platform, le Ong che si occupano proprio di denunciare queste condizioni di sfruttamento inaccettabili, almeno il 20 per cento degli occupati in questo settore in Bangladesh è composto da under 18 per i quali purtroppo questo tipo di lavoro è l’unica condizione di sopravvivenza”.

Come si comportano gli armatori italiani per la demolizione delle loro navi?

“Anche gli armatori italiani seguono la prassi di smantellamento più diffusa a livello mondiale, ovvero il ricorso ai convenienti cantieri nel Sud dell’Asia. Generalmente la nave arrivata a fine vita viene venduta per l’ultimo viaggio a una società che si occupa proprio di questo problema. Spesso sarà necessario cambiare la bandiera, utilizzarne una di comodo registrando la nave presso uno Stato con normative meno severe. In questo modo le responsabilità dell’armatore sono pressoché nulle. Negli ultimi sette anni ben 90 navi di armatori italiani sono state avviate ai cantieri dell’Asia meridionale. Tra queste anche navi di gruppi importanti come Saipem, Ignazio Messina, Grimaldi Group, Cafiero Mattioli e Vittorio Bogazzi che in alcune circostanze si sono resi responsabili di pratiche di smantellamento inaccettabili”.

Qual è la posta economica in gioco nello smantellamento delle navi?

“Stiamo parlando di una voce consistente nel bilancio di una società armatoriale. Fatto 100 il tonnellaggio mondiale avviato a demolizione, basti pensare che il 94 per cento è diviso fra Bangladesh (33%), India (22%), Pakistan (18%) e Cina (21%). Un restante 5 per cento è appannaggio dei cantieri in Turchia che, essendo una nazione dell’Ocse, deve garantire standard di sicurezza appena più stringenti. Il restante 1 per cneto si divide fra i Paesi del resto del mondo. In sostanza quattro Paesi rappresentano l’intera discarica mondiale delle navi”.

Cosa è necessario fare perché tutto questo non avvenga più?

“Al momento ci sono ben tre organismi delle Nazioni Unite che sono interessati al fenomeno (Unep, Imo e Ilo), ma gli strumenti adottati (Convenzione di Basilea e Convenzione di Hong Kong) non si sono dimostrati efficaci. L’Unione Europea dovrà a breve emanare una lista di cantieri ‘affidabili’ che obbligatoriamente dovranno smantellare le navi battenti bandiera dei Paesi Ue, ma abbiamo visto com’è facile cambiare bandiera per evitare questo tipo di obblighi. Bisogna evidentemente rendere più cogenti queste pratiche, immaginando anche forme di incentivazione economica per rendere più conveniente smantellare in modo più pulito e più sicuro”.

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Foto di Mike Hettwer
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    Piero Bosio
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    Violenza: riprendersi il potere sulla propria vita

    Nel giorno mondiale contro la violenza sulle donne, raccontiamo con Cristina Carelli, presidente di D.i.Re Donne in Rete contro la violenza, i centri antiviolenza, oltre 110 in Italia con differenze però tra Nord e Sud, con quasi 4mila operatrici in stragrande maggioranza volontarie e quasi 30mila donne “ascoltate” all’anno. “Siamo realtà aperte e sempre presenti, le donne arrivano da noi spesso senza appuntamento e si rivolgono a noi quasi sempre liberamente - spiega Carelli - perché il presupposto del nostro intervento è la libertà di scelta della donna, lo sottolineiamo perché è in corso un tentativo di trasformarci in realtà di servizio e per imporre alle donne dei percorsi standardizzati, più istituzionali e di sistema, e non costruiti per ciascuna partendo dal consenso e dalla libera scelta di ogni donna”. Sottofinanziamento, soluzioni solo punitive, negazione della dimensione politica e culturale della prevenzione, la frontiera è sempre la società. Se sono le famiglie a decidere cosa è giusto o meno per l’educazione sessuale, stiamo riproponendo il problema. “Chiediamo al governo di essere coerente: bisogna lavorare sul fronte della cultura e della prevenzione”. La violenza non è solo un atto individuale, ma è resa possibile da scelte politiche e culturali che limitano la libertà delle donne, scrive Di.Re nella campagna “Tutto nella norma” che potete trovare sul sito: direcontrolaviolenza.it

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