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Colombia, abbattuta dagli indigeni la statua del conquistador Sebastián de Belalcázar

Sebastián de Belalcázar statua abbattuta

Voi vedete che cade una statua, io vedo che si costruisce la storia”. Questo uno dei tanti commenti che accompagnano il video che mostra un gruppo di persone che sotto gli occhi di alcuni agenti di polizia, abbattono tirandola con tre corde la rappresentazione a grandezza naturale di un uomo a cavallo e poi esultano, cantano e sventolano una bandiera.

Siamo a Popayán, città  della Colombia sud-occidentale. A cadere è il monumento dedicato a un  conquistador  in piena regola: lo spagnolo Sebastián de Belalcázar: dopo aver fatto parte dell’esercito di Pizàrro che si prese il Perù, approdò in Colombia nel 1539 per proseguire nella conquista.

A far cadere  la sua statua sono i membri di tre comunità indigene appartenenti all’etnia dei Piurek, “i figlie e le figlie dell’acqua, del sogno e dell’arcobaleno e di quelli che non hai potuto uccidere o torturare”  recita il comunicato che ha accompagnato l’azione, in cui i membri del Movimento delle autorità Indigene del sud-ovest sottopongono il colonialista a un processo simbolico  che lo accusa di vari delitti fra i quali genocidio, tortura, furto. Quanto sufficiente per non ritenere più desiderabile, 485 anni dopo e ai tempi della furia iconoclasta, vedere svettare la sua immagine dalla collina più alta della città.

I Piurek sono una delle 115 popolazioni indigene sparse per il vasto e eterogeneo territorio colombiano: dalle cime delle Ande alle sabbie caraibiche passando per deserti e foreste fino all’Amazzonia, gli indigeni raggruppano il 4% della popolazione colombiana, quasi due milioni di persone. La maggior parte di essi vive in condizioni di povertà, discriminazione, pericolo.

Le mobilitazioni per i diritti degli indigeni in Colombia sono all’ordine del giorno, come lo sono gli episodi di persecuzione e repressione nei loro confronti. Il Cauca, la regione dove si trova la città di Popoayan  è fra le più ricche di popolazioni indigene, che sono sottoposte a violenza sistematica: solo due giorni fa è avvenuto l’assassinio del leader indigeno Oliverio Conejo Sánchez e di sua figlia Emily; dall’inizio dell’anno sono 65 i membri di comunità di cui è stato denunciato l’omicidio nella regione.

Violenza di stato, accusano gli indigeni, uno stato che non fa nulla e in alcuni casi è complice dei crimini perpetrati ai danni di comunità che sono d’ostacolo ai grandi progetti infrastrutturali ed estrattivi, ai traffici di armi e di droga e all’espansione dell’agribuisness. Il sindaco di Popoayan ha giudicato come violento l’abbattimento della statua .”Le autorità si scandalizzano per le statue che cadono, – hanno risposto gli indigeni – a noi fanno male le persone in carne ed ossa che muoiono”.

Foto | Twitter

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    Serena Tarabini
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    Gli accampamenti alla Columbia University contro i fondi per Israele in un documentario

    Kei Pritsker, regista con Michael T Workman del documentario “The Encampments”, racconta ai microfoni di Radio Popolare i retroscena della protesta studentesca pro Palestina alla Columbia University. “Gli studenti della Columbia protestano da anni per la Palestina e per ottenere che l’università dismetta gli investimenti in Israele – spiega Pritsker. L’università ha un ingente fondo di dotazione che investe in ogni sorta di attività, molte delle quali riguardano aziende produttrici di armi, aziende manifatturiere che realizzano armamenti, motori per elicotteri, bulldozer e ogni tipo di attrezzatura utilizzata in queste operazioni”. “The Encampments” fa parlare i ragazzi e le ragazze di questo movimento studentesco che dall’aprile del 2024 ha montato le tende nel giardino del Campus per chiedere trasparenza, il ritiro del denaro dagli investimenti israeliani e l’amnistia per gli studenti puniti per le proteste. “Chiunque creda ancora a questa narrativa sull’antisemitismo nel movimento per la Palestina dovrebbe semplicemente guardare il film – assicura Kei Pritsker”. Al momento “The Encampments” ha una distribuzione indipendente che lo diffonde nei cinema più coraggiosi. L'intervista di Barbara Sorrentini per la trasmissione Chassis.

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